Marco D’Amore, l’intervista

Sulle pagine di Cultura & Culture spesso abbiamo voluto raccontare e sottolineare come molti artisti diventati noti, magari in particolare per un ruolo, avessero alle spalle anni e anni di gavetta. Marco D’Amore è tra questi. Il grande pubblico l’ha conosciuto per Ciro Di Marzio nella serie Gomorra, ma l’attore casertano ha mosso i suoi passi sulle tavole del palcoscenico, cominciando da lì una strada tutta in salita piena di soddisfazioni e incontri. In quest’intervista ripercorriamo ricordi, punti di riferimento, progetti attuali che a breve realizzerà. Lo abbiamo incontrato alla 14esima edizione del Salento Finibus Terrae, diretto da Romeo Conte, dove ha presentato fuori concorso Un posto sicuro, scritto e co-prodotto con Francesco Ghiaccio (quest’ultimo ne ha curato anche la regia). Alla kermesse D’Amore ha ricevuto il Premio SAFITER per la sua interpretazione di Luca.marco-d-amore

Marco D’Amore, il Salento Finibus Terrae è stata la penultima tappa del tour che avete realizzato per Un posto sicuro, portandolo davvero in ogni angolo dello Stivale. Immagino tu possa tracciare un bilancio di quello che è stato. Che cos’hai raccolto in questo contatto diretto e dopo i tanti dibattiti sul tema dell’Eternit…
È andata ogni più rosea aspettativa, perché noi siamo usciti il 3 dicembre con una distribuzione avventata, sia per quanto riguarda il numero di copie che per il periodo, e temevamo che dopo le tre settimane di permanenza in sala il film avesse finito la sua vita, invece da dopo gennaio ad oggi non ci siamo fermati; anzi, abbiamo dovuto rifiutare tante proiezioni per via di incastri. Un posto sicuro ha avuto una vita lunghissima, costellata di migliaia di persone che l’hanno visto, tra cui tanti ragazzi, e la reazione è quella che hai visto anche tu dopo la visione. È stata uguale da Nord a Sud, da una parte c’è un riconoscimento al film, dall’altra uno stupore, una meraviglia e un certo tipo di rabbia dopo aver appreso quello che è capitato. Ovunque abbiamo recepito un sentimento di gratitudine per aver portato avanti questo lavoro e per esserci impegnati su un tema così delicato.

Da parte del pubblico, c’erano consapevolezza e conoscenza a riguardo?
Non c’era la conoscenza del tema né una consapevolezza così accesa rispetto al presente che li circonda perché la cosa bella che abbiamo constatato è che ognuno guardando il caso Eternit faceva il parallelo nella propria realtà. Ad esempio a Bergamo ci dicevano della fabbrica dell’acciaio, a Taranto dell’Ilva, in Sardegna del caso nucleare e così via.

Qual è stato, invece, il tuo primo contraccolpo man mano che vi documentavate?
Innanzitutto ho scoperto che questa piccola cittadina piemontese ha ospitato per quasi un secolo la più grande fabbrica di amianto d’Europa. Io non conoscevo le dimensioni del “fenomeno”. Ho appreso la ricchezza che ha portato in quel paese e perché sia nata proprio lì. Casale Monferrato (Alessandria, nda) è sempre stata la città del cemento e, infatti, l’Eternit è questo compost di cemento e amianto. Poi ovviamente, andando avanti, quello che più mi ha ferito e scosso è stato capire che, intorno a metà degli Anni ’60, c’era, soprattutto nei piani alti, la percezione che l’esposizione a questa fibra fosse mortale. Ci sono voluti, però, almeno quindici anni perché la fabbrica fosse chiusa e tra l’altro ciò è accaduto per dissesto economico non per ragioni legate alla salute.

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Parlando del film con Giorgio Colangeli al Bif&st 2016, si sottolineava come quest’opera abbia una grande “arma”, che è il teatro, capace ancor più di astrarre dal caso particolare. Tu e Francesco Ghiaccio, che l’avete costruita più direttamente, avendola anche scritta, come mai avete pensato proprio a questa “arma”?
Noi quando siamo riusciti a sintetizzare la storia di questi due personaggi, ci siamo messi in testa che il percorso di Eduardo (Giorgio Colangeli, nda) era esattamente quello della città, mentre quello di Luca (lo stesso D’Amore, nda) doveva essere il nostro. Eduardo, così come gli abitanti di Casale Monferrato, ha lavorato in quella fabbrica; per un certo periodo ha rifiutato che quella fabbrica gli avesse rovinato la vita, poi ha preso consapevolezza di quello che è stato, ha fatto i conti con la propria vita e ha deciso di reagire. Dall’altro lato, noi come Luca ci siamo trovati a dire: di questo grande disastro non ne sapevamo nulla. Abbiamo così cominciato un doppio percorso, da una parte di conoscenza, basti pensare a Luca che va infatti in biblioteca, s’informa ritagliando i giornali e incontrando le persone. Luca, come noi, l’unica cosa che può fare per partecipare democraticamente alla rivolta, è raccontare questa storia proprio come abbiamo fatto. Noi non siamo degli architetti, dei biologi o dei medici per cui potremmo intervenire diversamente. Siamo attori, sceneggiatori, registi e quello che possiamo fare è questo ed è il motivo per cui esiste il teatro, il luogo da cui proveniamo e secondo noi è una delle voci più alte per far arrivare alla gente certi disagi.

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Facendo un salto indietro nel tuo percorso, sei partito dal teatro e trovo sia sacrosanto ricordarlo. Cos’ha significato per te l’incontro con Andrea Renzi?
Mi ha cambiato la vita. Io ero in un teatro per un laboratorio, avevo diciassette anni e mezzo e mi stavo per diplomare. Avevo una passione smodata per il teatro, ma c’erano anche tante altre cose nella mia vita, tra cui la responsabilità di certe scelte. Quando ti diplomi pensi all’università, a cosa farai in futuro. Andrea mi ha visto, lui stava preparando Le avventure di Pinocchio con Toni Servillo (2001, nda), mi ha proposto un provino e da lì è cambiato tutto. Sono partito immediatamente in tournée per due anni con loro e quell’esperienza mi ha fatto prendere consapevolezza rispetto a quello che volevo fare. Da lì non mi sono mai più fermato.

Da lì hai avuto, quindi, la spinta per provare l’ammissione alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi?
Sì, mi ha dato consapevolezza e forza. Io prima provavo desiderio e gioia quando salivo sul palco, però magari non avrei mai trovato il coraggio per dedicare tutto a quell’esperienza. L’aver incontrato Teatri Uniti, lavorando e capendo con e attraverso di loro cosa significhi intendere il mestiere in un certo modo mi ha spinto a continuare.

Ascoltando quanta riconoscenza e affezione hai verso Teatri Uniti e pensando anche a molti artisti venuti meno, secondo te ci sono o quantomeno possono ancora esserci maestri per chi vuole fare l’attore oggi?
Il confronto con loro è da un certo punto di vista formativo e dall’altro disarmante. Uso l’espressione “con loro” perché per me Teatri Uniti è una factory che riunisce registi, autori, sceneggiatori, scenografi, pittori. Al suo interno sono nati Paolo Sorrentino e Matteo Garrone per esempio. Il problema è che loro sono di una generazione che è cresciuta con i maestri, hanno conosciuto anche Carmelo Bene; Toni Servillo ha infatti lavorato con Leo de Berardinis – solo per citarne uno -, non ci dimentichiamo anche il percorso di Martone. È necessario dire solo questo per rendersi conto del grande fermento culturale; noi siamo cresciuti in totale assenza, io fortunatamente ho trovato loro e loro me, ma oggi è molto difficile avere dei punti di riferimento.

Ho letto che tuo nonno materno, Ciro Capezzone, ha avuto la possibilità di lavorare con le compagnie teatrali di un tempo come quella di Nino Taranto, oltre ad aver partecipato a film con Nanny Loy e Francesco Rosi. C’è un ricordo che ti ha trasmesso in particolare?
Mi ha raccontato la meraviglia che era Vittorio Mezzogiorno incontrato sul set di Tre fratelli di Rosi (1981, nda), la sua gentilezza, l’eleganza e il cuore grande di quest’artista.

Marco D’Amore, l’idea di fondare La Piccola Società con Francesco Ghiaccio nasce anche dall’esigenza di non riuscire a trovare degli spazi di ascolto?
Nasce da un desiderio innato che ho sempre avuto rispetto all’indipendenza e che sono riuscito a condividere con Francesco. Sin da quando ho mosso i primi passi, da ragazzino, ho fondato la mia compagnia perché sentivo di avere soprattutto un desiderio autoriale rispetto a quello che facevo che è, secondo me, un aspetto che mi contraddistingue ed è il motivo per cui soffro molto a fare semplicemente l’interprete. Mi piace essere coinvolto non solo nel processo creativo, ma ancor più nell’amministrazione delle forze e quindi anche quello produttivo. Io e Francesco abbiamo creato La Piccola Società sin da subito, non appena diplomati, nel 2005, e due anni fa l’abbiamo trasformata in società co-producendo il film.

Continuerete su questa strada?
Sì, abbiamo molti progetti. Adesso stiamo scrivendo il secondo film e c’è una collaborazione attiva con Indiana Production.

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Tornerai in teatro con un testo di David Mamet, American Buffalo, che debutta in anteprima assoluta al Teatro Eliseo di Roma. Luca Barbareschi aveva già portato questo autore americano da noi. Puoi raccontarci com’è nato questo progetto?
Luca è l’unico detentore dei diritti di Mamet in Italia e il primo spettacolo l’ha portato più di trent’anni fa (sempre American Buffalo ma con Venturiello, nda). Ci siamo conosciuti perché lui ha co-prodotto con Casanova Multimedia Brutti e cattivi per la regia di Cosimo Gomez, il film che ho finito di girare un mese e mezzo fa. Sin da subito mi ha detto di voler portare all’Eliseo i giovani perché ci tiene a far avvicinare i ragazzi al teatro e quindi voleva propormi qualcosa. Io pensavo fosse indirizzato verso uno spettacolo da attore, ma io molto più a teatro che al cinema avverto l’esigenza di fare miei progetti e quindi avevo lasciato cadere la cosa. In seguito Barbareschi mi ha raccontato di voler dedicare un progetto a Mamet nella stagione 2016-2017 e mi ha detto: «vorrei ti prendessi la responsabilità di metterlo in scena». A quel punto ho deciso di approfondirlo ulteriormente come autore, visto che lo conoscevo soprattutto per i testi più famosi e ho scovato questo American Buffalo di cui mi sono innamorato subito. Ho scritto il mio progetto partendo dal testo, tradendolo, e devo dire che Luca è stato assolutamente contento, non mi ha messo alcun ostacolo. Lo faccio in napoletano. Adesso stiamo facendo le prove, debuttiamo il 28 settembre (e sarà in scena al Piccolo Eliseo fino al 23 ottobre, nda).

Marco, mi ha colpita come sottolineassi nelle note di regia il giocarsi tutto insito in questo testo…
È il motivo per cui mi ha colpito, si tratta di un’apologia del fallimento. Ci troviamo in un momento storico in cui viviamo l’apologia della vittoria e il successo, American Buffalo racconta di miserabili alle prese con un sogno che poi si rivelerà finto.

Sei una persona umile e con i piedi per terra, che riconosce di aver ricevuto un certo tipo di popolarità dovuto a un ruolo. Sembra che si continui ancora ad andare a compartimenti stagni, incastonando l’artista in un personaggio. Come si fa a evitare che Marco D’Amore possa essere associato solo a Ciro di Gomorra?
Questa è una paura che è nata sostanzialmente da vent’anni di cinema fatto da persone che non sono attori e che quindi non erano in grado di costruire personaggi, ma di proporre con una certa naturalezza se stessi perciò li si vedeva fare sempre la stessa cosa in qualsiasi film o fiction. Ad un certo punto scatta inevitabilmente nel pubblico l’equazione per cui se fai quella parte lì a ripetizione devi essere quello. Noi, invece, abbiamo proposto dei personaggi e questa è una tendenza che, secondo me, sta piano piano secondando questa nouvelle vague del cinema italiano. Basti pensare anche ai film che hanno avuto successo quest’anno, come Lo chiamavano Jeeg Robot, dove Claudio (Santamaria, nda) e Luca (Marinelli, nda) fanno dei personaggi che non coincidono con la propria personalità. Questo abituerà sempre più il pubblico a comprendere che la natura del mestiere sta proprio nel cambiamento. Io non ho alcun tipo di preoccupazione rispetto al ruolo di Ciro in Gomorra – La serie, anzi sono grato di interpretare un personaggio del genere. Se qualcuno mi domanda se mi son stancato, io rispondo che non mi stancherei di fare l’Amleto per cent’anni perché Ciro è un abisso, un motivo di indagine continua, al di là del fatto che sia iscritto in una serie che è commerciale.

Da poco si è conclusa su Sky Atlantic la messa in onda della seconda serie di Gomorra, ti pongo una domanda un po’ provocatoria. Cosa risponderesti a chi ha parlato di paura dell’emulazione?
Mi viene solo da ridere. Inviterei chi scrive di questo a passare una settimana nei quartieri in cui giriamo e a rendersi conto che ci ridono in faccia perché hanno ben altri esempi negativi, dalla mattina alla sera, a cui ahimè ispirarsi, non certo una serie dove quando si spara, lo si fa a salde. Purtroppo nella realtà quando si spara, lo si fa veramente e la gente muore (Marco D’Amore pronuncia queste parole in napoletano, con rispetto e un forte senso di verità, nda).

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