Michele Placido dirige “Prima di andar via”, la recensione

Quando si pensa alla fragilità umana e anche al suicidio capita che riaffiorino alla mente questi versi di Eugenio Montale: «Spesso il male di vivere ho incontrato». In Prima di andar via, diretto da Michele Placido e scritto da Filippo Gili, tutti sperimentano questa sensazione che, d’istinto, attribuiremmo solo a Francesco. È lui che, nel bel mezzo di una tranquilla cena in famiglia, afferma: «domattina io non sarò più vivo».

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Cosa si può provare se un figlio, un fratello preannunciasse la sua morte? Quale sarebbe la nostra reazione?

Gili, imbevuto di letteratura e di tanto teatro – non ultimo Cechov – sceglie di mettere nero su bianco l’addio tra vivi puntando su un elemento: la non presenza di malattia o impedimento ineluttabile a cui si aggiunge il non preannunciare con un bigliettino, ma di persona.

Francesco (interpretato dallo stesso Gili) non è un malato terminale, ha perso sua moglie da tre mesi e la sua vita – soprattutto se si pensa a quella lavorativa – è ripresa, tutto appare regolare, ma lui non ha voglia di «imparare a digerire il vivere». Quello che colpisce nel dipanarsi della notte è la costanza con cui l’uomo porta avanti la sua idea, le reazioni dei famigliari non lo smuovono rispetto al progetto di dipartita, ciò non significa che non mostri sentimenti ed emozioni… i suoi occhi gonfi e alcuni silenzi fanno trasparire un mondo interiore complesso, dietro cui c’è una personale consapevolezza del futuro.

prima di andar via4Presentato nella sezione “Festa mobile” alla 32esima edizione del Torino Film Festival, il film di Michele Placido sceglie di mettersi al servizio del teatro e lo fa a più livelli, ricordandoci quanto l’arte sia collegata con la vita. Conquistato, infatti, dalla visione dello spettacolo al Teatro Argot di Roma (la regia teatrale è curata da Francesco Frangipane), con un testo che acquista ancor più spessore grazie all’ottimo cast, Placido ha deciso di trasporlo sul grande schermo mantenendo gli stessi attori della pièce perché meritevoli di essere conosciuti. A parte il più celebre Giorgio Colangeli e il già citato F. Gili, troviamo Vanessa Scalera e Aurora Peres nei ruoli delle sorelle, Michela Martini in quello della madre e Francesca Alunno dà il volto alla moglie perduta. Una scelta ben precisa che si ripercuote sia nella messa in scena, sia nella messa in quadro (ci teniamo a sottolinearlo, non si tratta di mero teatro filmato).

Tutto questo è dichiarato nei primi minuti dell’opera: con gli attori che arrivano all’Argot, idealmente vi entriamo anche noi, che diventeremo, di lì a poco, spettatori di un kammerspiel dai colori contemporanei, a partire proprio dalla voglia di trattare un tabù. La macchina da presa, infatti, segue Francesco per strada e si rimbalza il testimone con la scena.

prima di andar via3Al cinema è capitato spesso che film avessero come oggetto il suicidio, l’eutanasia, ma, andando a memoria, mai in questi termini. In Prima di andar via non ci troviamo di fronte al concetto stretto di “metateatrale”, qui accade che la potenza teatrale – a partire dalla drammaturgia originaria – viene esaltata dal mezzo cinematografico, ma senza ricorrere a chissà quali effetti speciali, se non proprio il teatro stesso come scatola in cui accade la vita, vi si riflette su con un linguaggio che sulla carta può apparire aulico. Gli attori, forti di una recitazione assolutamente teatrale (e non nel senso negativo del termine, non sono impostati), masticano quelle parole rendendole autentiche, scardinano la quarta parete e arrivano allo stomaco e al cuore della platea di turno, merito anche di inquadrature ben studiate, di primi e primissimi piani e di un montaggio ben calibrato.

prima di andar viaLa rivelazione di Francesco sconvolge tutti gli equilibri famigliari, cala la maschera, cedono i freni e ogni componente cerca di trattenerlo: c’è chi innesca il meccanismo del ricatto, chi si pietrifica, chi abbraccia per non lasciare andare fino ad arrivare alla «disarticolazione del linguaggio emotivo» – come ben puntualizza l’autore.

Non era facile mantenere i tempi di una messa in scena, quel ritmo che sul palco ha un senso e sullo schermo potrebbe non mantenere la stessa sinfonia, qui, invece, accade perché non si tradisce lo spirito di partenza. Il regista di “Vallanzasca” asseconda persino la luce decisa per l’adattamento teatrale, negli ultimi minuti sceglie un’angolazione della macchina da presa che sveli il totale della scena (da una prospettiva ovviamente) e le fila del teatro.

Siamo in una finzione, eppure tutto è palpabile, dal pugno allo stomaco, alle forti emozioni che ognuno di noi potrebbe provare, come se quegli attori ci stessero recitando a pochi cm da noi.

 

 

Maria Lucia Tangorra

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