La recensione di Cock di Mike Bartlett. Lo spettacolo è in scena al Teatro Filodrammatici di Milano fino al 16 novembre
In un tempo in cui alcuni temi non dovrebbero essere più tabù, ci ritroviamo ancora di fronte a diocesi che avviano “indagini informali” su come sia affrontata l’omosessualità in classe o a chiusure da parte degli organi politici. Forse il teatro potrebbe essere una di quelle sedi in cui l’omosessualità non viene più vista come “diversità” (nell’accezione negativa che spesso si attribuisce al termine), ma come uno di quei temi che afferisce alla ricerca di identità.
È questo ciò che si pensa assistendo alla messa in scena di Cock di Mike Bartlett, presentato in anteprima nazionale al Teatro Filodrammatici il 9 novembre a chiusura del Festival “Illecite/visioni” – rassegna di teatro omosessuale – prosegue fino a domenica, 16 novembre, come spettacolo in stagione.
Scritto da un drammaturgo inglese classe 1980, Cock è stato rappresentato per la prima volta al Royal Court Theatre di Londra nel novembre 2009 riscuotendo grande successo di pubblico e di critica (nel 2010 ha conseguito l’Olivier Award). Questo è il primo adattamento italiano curato da Silvio Peroni, con Margot Sikabonyi, Fabrizio Falco, Jacopo Venturiero ed Enrico Di Troia.
La forza della drammaturgia risiede nell’equilibrio perfetto tra cinismo (spesso rappresentato dalle battutine del fidanzato di John – interpretato da un credibile Venturiero), dolcezza e “sogni infranti” (incarnati spesso dalla lei – molto brava la Sikabonyi nel darle corpo) e fragilità (declinata in tutti e tre i personaggi in modi diversi, con punte anche nel padre del compagno).
Non è un nostro errore: l’unico ad avere un nome è John (Fabrizio Falco, Premio Mastroianni 2012 alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia), quasi un paradosso visto che è colui che più si pone domande sulla propria identità. Probabilmente Bartlett gioca intenzionalmente sull’idea di avere un nome, ma non sapere ancora chi si è.
In una scena spoglia, dove i nostri protagonisti agiscono principalmente in un quadrato creando linee (immaginarie) di una tensione palpabile che cresce tra loro e in loro, lui e lei vorrebbero attirare John nella loro orbita, ognuno pensando di far del bene a lui, pensando (magari inconsciamente) a sé.
Ci vogliamo soffermare su questo punto perché è uno dei passaggi in cui avvertiamo quanto Cock possa essere universale: queste dinamiche sono, infatti, famigliari, non c’entra gay o etero. Per quanto il nostro protagonista inizi a interrogarsi su di sé a partire dall’omosessualità, senza rivelarvi assolutamente il finale, il “gioco” continua e viene rilanciato a noi, non c’è risposta certa su chi siamo.
Come in un ring, di cui l’incontro finale a tre e poi a quattro sarà un “finto” the end, gli attori ne percorrono i lati e le diagonali, escono fuori e dentro quel quadrato che quasi richiama alcuni sentimenti di schnitzleriana memoria. Qui potremmo dire che il girotondo è intorno a se stessi e alle proprie convinzioni (che, talvolta, cadono) in un’incessante, quasi affannosa, ricerca di risposte.
Nell’ottica secondo cui in teatro spesso si riesce a metabolizzare quello che nella vita vera sembra quasi impossibile, Bartlett decostruisce, con battute che ci fan ridere, anche i cliché legati a questo “tema” come la percezione dell’omosessualità come qualcosa di genetico e si diverte a giocare con l’idea che in famiglia ci sia l’unico amore ideale possibile – sempre che esista un amore ideale.
I quattro interpreti si rivelano assolutamente in parte e danno ulteriore spessore ai dialoghi, così diretti e pressanti, da cui emergono conflitti intimi, sociali, di genere e generazionali.
Ecco, Cock scardina tutte le sovrastrutture che naturalmente abbiamo e/o ci creiamo e lancia, su tutto un messaggio: «la cosa importante è la persona».
Per info: www.teatrofilodrammatici.eu
Maria Lucia Tangorra