Ogni elemento che lo compone, dall’albero al Presepe, dalla tradizione di scambiarsi doni alla figura di Babbo Natale, ha contribuito inevitabilmente ad arricchire la sua storia, spingendone il fondamento ultimo sempre più indietro nel tempo, fin quasi ad avvolgerlo nella nebbia di un passato troppo lontano da rammentare. Lo diciamo tutti gli anni: il Natale non è, o almeno non dovrebbe essere, un giorno dedicato unicamente al consumismo, o ai beni materiali che ci aspettiamo di ricevere. Di fatto, però, la parte più “laica” di questa festività ha preso il sopravvento con il fascino innegabile che esercitano su di noi luci, abeti addobbati con palline di mille colori o decorazioni ogni anno nuove e, perché no, di volta in volta un po’ più eccentriche, il sapore dolce di panettoni e pandori (e l’infinita guerra tra “panettonisti” e “pandoristi”, se mi si passano i neologismi, per la supremazia di un dolce rispetto all’altro. Battaglia che, per fortuna, non può avere né vincitori né vinti).
Del resto, poi, tutti i bambini si aspettano dei regali, (anche gli adulti, inutile nascondersi dietro a un dito) quindi è inevitabile che l’aspetto più commerciale, più appariscente si prenda, di anno in anno, una “fetta” (per rimanere in tema) sempre più ampia di mercato e di consumatori. Certo, questo significa anche dover vedere i primi addobbi già qualche giorno dopo la commemorazione dei defunti; in effetti, la scelta dei tempi potrebbe essere studiata meglio, ma la legge del marketing impera (dicono) e continuerà a farlo finché vi saranno persone disposte a iniziare gli acquisti natalizi dal 3 novembre (in realtà si tratta di un circolo vizioso, perché se è vero che ognuno è libero di comprare decorazioni e doni quando vuole, è altrettanto vero che alcuni approfittano di determinate tendenze del consumatore per calcare la mano ed esagerarle). In questo articolo, però, del marketing ci interessa poco. Vogliamo tornare alle origini del Natale, riscoprirne il significato e, per farlo, dobbiamo partire da più di duemila anni fa, in una grotta come vuole la tradizione religiosa, illuminata da una stella cometa, portatrice di una buona novella.
“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra…Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide…salì in Giudea alla città…chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta…Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Luca 2, 1-7). In queste brevi parole tratte dal Vangelo di Luca c’è l’essenza e il significato del Natale, ovvero la nascita di Gesù (narrata anche nel Vangelo di Matteo). Il nome “Natale”, infatti, deriva dal verbo latino “nascor”, nascere, nella forma del participio perfetto “natus” e, quindi, dalle parole, sempre latine, “natalis/e” (nascita) e “nativitas” (natività, nascita), una radice passata in espressioni come “diem natalem Christi” (giorno della nascita di Cristo) (per capire l’uso in analisi logico vediamo, per esempio, Cicerone: “Diem natalem reditus mei ago”, ovvero “festeggio come fosse una rinascita il giorno del mio ritorno”). La nascita di Gesù, preceduta dall’Annunciazione, dalla vana ricerca di un alloggio per Maria incinta, dall’appoggio costante di Giuseppe, è l’annuncio al mondo della venuta del Messia, di Dio che si è fatto uomo ed è pronto a ripercorrere le tappe dell’esistenza umana per provarci che non siamo soli e che, nonostante la sua morte, lui ritornerà (prova ne è, comunque, la Resurrezione) in un tempo che potremmo definire, appunto, messianico, non determinato, cioè alla “fine dei tempi”.
Questa venuta è un emblema di speranza che comparve nell’indifferenza generale; pensiamo al fatto che la Vergine Maria partorì il Re dei Re in una mangiatoia, nell’estrema povertà, senza l’aiuto di nessuno e questo dovrebbe farci riflettere, pur senza inutili estremismi, sui nostri tempi e sul vero significato del Natale. Per chi crede, questa nascita avvenne sotto il giogo di una grave minaccia, la fiamma della speranza si accese proprio nel momento di maggior pericolo, cioè quando Erode il Grande (73 a.C.-4 a.C. circa), re di Giudea, stando al racconto del Vangelo di Matteo, ordinò la tristemente celebre “strage degli innocenti”, l’uccisione di tutti i bambini maschi “da due anni in giù”, allo scopo di eliminare il piccolo Gesù. Infatti Erode era stato avvisato dai Magi della nascita di un bambino che sarebbe stato re dei Giudei e della presenza di una stella che vegliava sui suoi primi giorni di vita. “….Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi” (Matteo 2, 16). Così, temendo un complotto e l’usurpazione del trono, Erode escogitò il terribile espediente della strage a cui Giuseppe, Maria e il loro figlio scamparono grazie all’avvertimento di un angelo: “…Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo» Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode…” (Matteo 2, 13-15).
Il rigore storico ci impone di dire che questa strage viene menzionata solo nel Vangelo di Matteo e che non abbiamo prove del fatto che sia realmente avvenuta. Non ne parla nemmeno Giuseppe Flavio (37 circa-100 circa), attendibilissima fonte di quel periodo, ma può darsi che la notizia eventuale dell’assassinio di bambini non fosse considerata abbastanza importante in Galilea, figuriamoci a Roma perché, come sostiene il biblista Giuseppe Ricciotti (1890-1964), il numero di vite coinvolte era esiguo e si trattava di persone appartenenti ai ceti sociali più bassi e per questi motivi l’episodio non venne registrato. Teniamo conto del fatto che all’epoca di Gesù la sensibilità umana era molto diversa dalla nostra, non esistevano i diritti umani e l’autorità aveva poteri e un ruolo molto più ampi. Non dobbiamo dimenticare, però, che Erode il Grande aveva delle manie di persecuzione, delle paranoie che lo portarono perfino a uccidere dei membri della sua famiglia accusati di cospirazione. Stando al racconto biblico, di certo il sovrano non aveva capito che questo nuovo, futuro “re” appena nato avrebbe comandato un regno molto più vasto del suo e che non era di questa terra. La simbologia legata alla nascita di Gesù non finisce qui: il Cristo non è forse, per i credenti, un pastore che guida il gregge?
La sua stirpe è quella di Davide e quest’ultimo fu, prima di diventare re d’Israele, un pastore di Betlemme, insomma un uomo umile. Gesù, poi, nacque proprio in un ambiente di pastori. Tra i primi ad adorare il Cristo appena nato ci furono, secondo il Vangelo di Luca, proprio dei pastori: “C’erano in quella regione alcuni pastori…un angelo del Signore si presentò davanti a loro…disse…: «Non temete, ecco, vi annunzio una grande gioia: oggi vi è nato, nella città di Davide, un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia»”. (Luca 2, 8-12). Abbiamo già accennato alle figure regali dei Magi. Chi erano davvero? La Bibbia non ci dice quanti fossero, il numero tre è una deduzione in base al numero di doni portati a Gesù, cioè oro (regalo che si addice a un re), incenso (emblema di ieraticità e adorazione), mirra (sottintende la mortalità di Gesù, poiché veniva usata per profumare i corpi dei defunti, ma il suo impiego poteva essere anche medicinale, cioè curativo, salvifico) e, comunque, ha una forte valenza simbolica (pensiamo alla Trinità, per esempio); non sappiamo davvero neppure i loro nomi. Gaspare (nobile signore di Saba), Melchiorre (Melech, cioè re, sovrano) e Baldassarre (Balthazar) sono stati dedotti dai Vangeli apocrifi. Probabilmente i Re Magi erano sacerdoti del culto zoroastriano, forse non si trattava di re veri e propri, titolo che è stato attribuito in tempi successivi dagli esegeti della Bibbia, ma di uomini saggi, colti, appartenenti all’aristocrazia persiana, con una vasta conoscenza dell’astrologia (all’epoca non c’era una distinzione tra astronomia e astrologia, non esisteva il concetto di scienza come lo intendiamo noi e l’astrologia era un insieme di osservazioni astronomiche, credenze, miti e un primo nucleo di “scienza”) che gli consentì di seguire la cometa che li condusse fino a Betlemme. I magi, quindi, non erano maghi in senso stretto, tantomeno stregoni nell’accezione moderna e, benché alcuni studiosi tendano a mettere in discussione la loro presenza nella mangiatoia, la Chiesa riconosce questo particolare episodio.
La tradizione vuole che i Magi abbiano compiuto il loro viaggio tra Natale e l’Epifania, ma anche in questo caso non può esservi certezza; si tratta, più che altro, di convenzioni. Per i cattolici il loro arrivo cade proprio il 6 gennaio, mentre per gli ortodossi è anticipato al Natale, mentre il periodo della nostra Epifania è associato al battesimo nel fiume Giordano. Quel che a noi interessa, partendo dal racconto biblico, sebbene piuttosto scarno, è il significato di queste figure. Furono loro, infatti, a chiedere informazioni sulla nascita del “re dei Giudei”, Gesù, una volta giunti a Gerusalemme dall’Oriente, mettendo in allarme Erode, che volle conoscere la loro destinazione e i particolari del viaggio: “Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo»” (Matteo 2, 7-8). I Magi non potevano conoscere le oscure trame del re, ma ci pensò un angelo ad avvertirli di non tornare da lui dopo aver visto Gesù: “Entrati nella casa videro il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese” (Matteo 2, 11-12). Questi saggi uomini potrebbero rappresentare l’umanità nel suo percorso iniziatico verso Cristo, o potrebbero essere una sorta di messaggeri di pace, della venuta del messia, nati in diversi luoghi del mondo a simboleggiare l’universalità della futura predicazione e Resurrezione del Cristo. Un altro dei segni che preannunciarono la nascita del Bambino fu la celebre, indimenticabile “stella cometa”; gli scienziati ci fanno notare che stella e cometa, giustamente, sono due corpi celesti diversi e, inoltre, nessuno ci ha mai confermato la natura esatta di questo fenomeno. Fu un evento naturale o miracoloso? Inutile dire che il dibattito non si è mai davvero chiuso. Uno dei primi a sostenere la prima ipotesi fu il filosofo e teologo Origene di Alessandria (185-254). Il particolare della coda luminosa, comunque, comparve successivamente e il testo biblico parla proprio di una stella.
Giotto dipinse, nella Cappella degli Scrovegni (foto in alto, ndr), una cometa, influenzato, con tutta probabilità, dal passaggio della cometa di Halley nel 1301. Da lì in poi questo tipo di iconografia ebbe una grande popolarità che possiamo vedere ancora oggi nei nostri presepi. La stella, comunque emblema della luce che preannuncia la nascita del messia, si “fermò” su Betlemme, quindi non proprio sulla mangiatoia. Insomma i Magi la seguirono davvero da Gerusalemme in poi, la città in cui chiesero, come abbiamo visto, della nascita del re dei Giudei: secondo la profezia di Balaam, infatti, questa nascita regale sarebbe stata annunciata proprio da un astro luminoso (ovviamente i Magi sapevano come arrivare a Gerusalemme, il loro scopo era capire in che direzione li avrebbe portati la stella, se davvero si trattava, come poteva sembrare, di Betlemme).Gli astronomi moderni, ricostruendo la “storia astronomica” dell’epoca di Gesù, hanno notato che avvennero diversi fenomeni che potrebbero dare un “volto”, una natura ben precisa alla stella di Betlemme. Una delle teorie più accreditate, il primo a parlarcene fu Keplero (1571-1630) nel “De anno natali Christi”, (1614) rimanda a una congiunzione astrale tra Marte, Saturno e Giove, nella costellazione dei Pesci, avvenuta nel 7 a.C. e registrata anche dai contemporanei all’evento. Molti dubbi ci sono anche riguardo al giorno esatto della nascita del Cristo. Per convenzione questa cade alla mezzanotte tra il 24 e il 25 dicembre e da qui iniziamo a calcolare le epoche, distinguendo tra prima e dopo l’evento. Di fatto, però, nemmeno i Vangeli ci aiutano a fare chiarezza.
Il 25 dicembre associato alla Natività è attestato per la prima volta nell’opera “Chronographus anni 354” del pittore e calligrafo Furio Dionisio Filocalo (IV sec.). Perché proprio questo giorno è difficile da spiegare; non vi è certezza assoluta, ma l’ipotesi che la Chiesa abbia sovrapposto la festa cristiana a tradizioni pagane precedenti non è affatto remota, anzi. Infatti dal 17 al 23 dicembre gli antichi romani festeggiavano i Saturnali, appunto in onore del dio Saturno. In quei giorni era sovvertito l’ordine sociale prestabilito, quindi gli schiavi diventavano temporaneamente liberi, si usava indossare maschere, si facevano offerte e sacrifici per ringraziare gli dei per i doni offerti dalla terra (visto che il periodo dei Saturnali coincideva con il riposo di questa). Il 25 dicembre si celebrava, nel tardo impero romano, il Sol Invictus, che chiudeva i Saturnali. Fu l’imperatore Eliogabalo (203-222) (“Helios”- sole, benché anche “El”-dio e “Gabal”-montagna, riferito sempre al culto solare) a iniziare la tradizione, poi ripresa dall’imperatore Aureliano (214 circa-275). Eliogabalo incentrò la tradizione religiosa sul Sol Invictus, collegato a Mitra. Per questo motivo e anche per delle similitudini riscontrate tra il Mitraismo e il Cristianesimo (per esempio la nascita di Mitra da una vergine, secondo alcune leggende), la figura di Gesù è stata più volte associata a quella di Mitra stesso, in certi casi ci sono stati addirittura tentativi di sovrapposizione. Tale confronto è molto complicato, per nulla lineare e in grado, da solo, di dar vita ad aspre polemiche. Può il Cristianesimo aver avuto origine dal Mitraismo? E’ impossibile, allo stato attuale delle ricerche, dare una risposta assoluta, il dibattito è aperto e coinvolge sia credenti che non credenti. Limitiamoci a constatare che la simbologia solare, della luce come “portatrice” di giustizia, verità, di una lieta novella, è presente in varie religioni, miti, perfino nel Cristianesimo, come ci dice la Bibbia (per esempio troviamo tali riferimenti nel Libro di Malachia).
In moltissime case e luoghi pubblici dei Paesi a maggioranza cattolica è ben radicata l’abitudine di costruire, ogni anno, il Presepe. Ormai ne esistono di tutti i tipi, alcuni strettamente connessi alla tradizione biblica, altri caratterizzati da uno stile più fantasioso per quel che concerne la scelta dei personaggi, dell’ambientazione e dei materiali. I “pezzi” fondamentali del presepe li conosciamo: la Sacra Famiglia con il Bambinello deposto nella mangiatoia solo la notte di Natale, la capanna o la grotta, il bue e l’asino, i Re Magi con i cammelli, (da inserire, in teoria, il 6 gennaio, ma molti di noi li posizionano fin da subito nel presepe) la cometa e gli angeli. Questa è la rappresentazione canonica della Natività. A ciascuno, poi, il compito di interpretarla e impreziosirla come meglio crede, data la vastità e diversità di elementi da poter selezionare nei negozi o mercatini appositi. Una delle azioni più belle, cariche di significato ed emozionanti che possiamo fare per ricordare la nascita di Gesù è proprio ricreare, in piccolo, il mondo in cui nacque. La parola “presepe” viene dal latino “praesaepe”, mangiatoia, oppure recinto per animali. La tradizione del presepe risale al Medioevo. In realtà la prima raffigurazione di questa nascita speciale venne scoperta nelle Catacombe di Priscilla (realizzate tra il II e il V secolo): non sappiamo chi la dipinse, ma possiamo ammirare la Vergine Maria seduta, con in braccio Gesù e, accanto, una figura, identificata con un profeta, che indica una stella. La pittura risalirebbe al III secolo. Il primo vero e proprio presepe, però, lo realizzò San Francesco d’Assisi nel 1223 (proprio un anno prima di iniziare a comporre il Cantico delle Creature), quando allestì a Greccio una sacra rappresentazione “vivente”, cioè ricreando il più fedelmente possibile la grotta di Betlemme con il bue e l’asinello. Non c’era la Sacra Famiglia, ma la leggenda vuole che quella notte un misterioso bambino molto bello abbia dormito davvero sul pagliericcio allestito per l’occasione e che san Francesco lo abbia addirittura tenuto in braccio. Il Santo aveva chiesto e ottenuto il permesso dal papa Onorio III (1150-1227; eletto nel 1216)) per rappresentare la Natività e questo poco dopo che lo stesso pontefice aveva approvato la versione definitiva della regola per la nascente comunità di frati devoti a Francesco. Il presepe conobbe, da quel momento in poi, una grande popolarità che si riversò nell’arte dal Trecento al Cinquecento, pensiamo a due esempi famosissimi, come la già citata “Natività” di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1305 circa), oppure l’Adorazione dei Magi (1475) di Botticelli nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Dal Seicento in poi nacque e si consolidò la tradizione di allestire il presepe in casa; ovviamente ci riferiamo alle abitazioni degli aristocratici, che potevano permettersi di dedicare alla rappresentazione della nascita di Cristo intere stanze in cui venivano ricreati ambienti pastorali con statuine fatte di materiali pregiati e vestite con stoffe raffinate. In tal senso il presepe divenne un espediente per sfoggiare ricchezza. Addirittura nel Settecento, quando la tradizione esplose in tutta la sua creatività artistica a Napoli, Roma, Bologna, Genova e nelle altre più importanti zone d’Italia, le nobili casate facevano letteralmente a gara per costruire il presepe più bello e sfarzoso. Questo fu il secolo della produzione di statuine fatte a mano da abili mani di artigiani e, così, nacque una vera e propria tradizione, un mestiere vivo ancora oggi e che si tramanda di generazione in generazione. In questi secoli si iniziò ad allestire la Natività anche nelle chiese e c’è da dire che il risultato non ha nulla da invidiare a quello ottenuto dai nobili. Tra Ottocento e Novecento, con la produzione in serie, si cominciò a introdurre il presepe nelle case del popolo. Oggi la tradizione è per tutte le tasche: usiamo statuette in plastica, ma anche in terracotta, fatte e dipinte a mano o in serie (c’è anche chi mescola le due cose). In realtà i nostri presepi, di qualunque materiale siano fatti, hanno un enorme valore affettivo e spessissimo passano dai genitori ai figli, per ricordo.
Ogni Paese del mondo ha uno stile proprio: in Francia è molto sentita l’influenza della tradizione italiana, benché la Rivoluzione francese abbia interrotto la tradizione del presepe, poi ripresa in epoca napoleonica. Anche in Spagna ebbe notevole presa il caratteristico presepe di Napoli (risaliamo al Regno di Napoli) e la rappresentazione tende a riprodurre rigorosamente la Betlemme della nascita di Cristo. Sono molto simpatici i presepi sud americani, poiché lo stile è molto vivace e colorato e i paesaggi non sono sempre quelli canonici; più spesso, infatti, ritroviamo i colori sgargianti della lussureggiante natura del Perù o del Brasile e i personaggi in abiti tipici del luogo d’appartenenza. Accade lo stesso in Africa, dove l’abitudine di ricreare la grotta in cui venne al mondo Gesù fu portata dai missionari, gesuiti in particolare, ma gli abitanti dei diversi Stati africani hanno saputo personalizzare il presepe, dando vita ad ambientazioni “arabeggianti” oppure più in linea con i colori caldi della savana africana. In Italia, se volete acquistare statuine originali (anche piuttosto eccentriche), dovete far visita a Via san Gregorio Armeno, nel cuore di Napoli. E’ lì che, dal Settecento, l’arte del presepe tradizionale incontra la fantasia più sfrenata e molti dei personaggi in vendita (alcuni davvero poco “tradizionali”, ma più vicini al mondo contemporaneo) hanno un valore che, addirittura, cresce negli anni. Secondo una stima fatta dal settimanale Tv Sorrisi e Canzoni, infatti, la statuina del cantante Lucio Dalla vale, oggi, 200 euro (il valore è salito), quella di Papa Francesco 250 euro (e c’è da aspettarsi che il valore non scenda, al contrario), mentre la meno costosa è quella di Belen Rodriguez, ora a 25 euro (insomma, se avete acquistato quella della showgirl argentina negli anni scorsi, non avete fatto un grosso affare).
Oltre al presepe nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo si usa addobbare l’albero di Natale, che tradizionalmente è un abete vero o finto. L’abete è un simbolo antichissimo presso diverse culture, quindi non possiamo dire che il suo utilizzo in particolari celebrazioni sia riconducibile a un’unica origine. Già i Celti e persino i Vichinghi li decoravano con frutta di stagione durante il Solstizio d’Inverno (da notare quanto questa parte dell’anno sia celebrata, venerata addirittura fin dall’antichità come momento culminante della stagione più buia che però, in sé, ha già i “germogli” della successiva primavera. E’ il culmine del sonno della terra e, nello stesso tempo, il lento inizio del suo risveglio). I Romani impreziosivano le loro case utilizzando rami di pino durante le Calende (il primo giorno) di gennaio. Le Calende, che aprivano ogni mese, erano sempre dedicate a Giunone. Inoltre in quell’occasione usavano scambiarsi “strenne”, rami consacrati come augurio di prosperità e felicità. Probabilmente nacque da qui l’abitudine di scambiarsi regali per Natale. Non dimentichiamo, poi, che l’abete, secondo i miti nordici, è l’albero consacrato al dio Odino. In effetti l’albero in sé, dalla quercia al pino fino all’abete è un simbolo di saggezza, sapienza (pensiamo all’albero della Vita o all’Albero del Bene e del Male) per molti popoli antichi e spesso ancora oggi. Nello specifico, limitandoci all’abete, data anche la complessità dell’argomento, possiamo dire che questo albero di Natale per antonomasia è una conifera sempreverde e proprio questa particolarità ha colpito gli antichi, che vedevano nelle sue foglie lussureggianti l’emblema della vita che rinasce, si trasforma, perfino del Sole che illumina il mondo nonostante il gelo. Tutti questi significati sono passati nel Cristianesimo, benché reinterpretati in base alla figura del Cristo. Quest’ultimo divenne il centro della potenza della vita, il dio fatto uomo che aveva sconfitto la morte e l’abete divenne simbolo di immortalità ben radicato a terra ma svettante verso il cielo.
La Chiesa, in un primo momento, cercò di accostarlo e forse anche di sostituirlo con l’agrifoglio, altro albero ben conosciuto nelle culture irlandese, romana e germanica per i suoi usi medicinali e come “scaccia demoni”, poiché le sue foglie ricordavano la corona di spine di Gesù, in un ulteriore tentativo di reinterpretare, “assorbire” simboli provenienti dalle religioni precedenti. La storia, come sappiamo, andò diversamente, ma l’agrifoglio, comunque, è presente ancora oggi nella tradizionale natalizia a livello internazionale. Il Cattolicesimo accettò l’abitudine di addobbare l’albero perché vi rintracciò l’allegoria della Croce, anch’essa fatta di legno. Sembra che il primo albero di Natale di tipo moderno sia stato fatto a Tallinn (Estonia) nel 1441 e lo stile sia stato ripreso, circa un secolo dopo, dalla Germania. Ci vollero, però, circa altri duecento anni perché questa tradizione si diffondesse in tutta Europa: a Vienna l’albero di Natale venne addobbato per la prima volta nel 1816, in Francia nel 1840, mentre in Russia fu Pietro il Grande (1672-1725), già nel Settecento, a volerne uno per emulare l’uso europeo. In Italia fu la regina Margherita (1851-1926, in carica dal 1878 al 1900) a innamorarsi delle luci scintillanti dell’albero di Natale e a volerlo proporre proprio nel Quirinale, ma siamo già nella seconda metà dell’Ottocento. Il Novecento fu il secolo della diffusione di massa dell’albero di Natale e gli ornamenti non sono più frutti, biscotti di marzapane e candele, ma luci elettriche di varia foggia (oggi è molto popolare il Led), palline di plastica o vetro, festoni colorati di carta o plastica.
Babbo Natale non ha bisogno di presentazioni; chi non conosce l’anziano signore di indecifrabile età che, vestito di rosso e bianco, con una lunga barba bianca e un sacco pieno di regali da distribuire ai bambini buoni di tutto il mondo, solca i cieli nella notte di Natale, su una slitta trainata da magiche renne? La sua figura, però, ha origini molto antiche e svariante interpretazioni a seconda dei Paesi in cui è amata e rispettata. Nel folklore germanico torna il già citato Odino, perché il mito vuole che i bambini riempiano di cibo i loro stivali e li lascino vicino al caminetto, dove arriverà il dio a svuotarli, per sfamare il suo cavallo (in questo caso non ci sono renne), lasciando in cambio dei regali. Il mito islandese è simile, però qui ci sono ben tredici folletti al posto di Babbo Natale e l’evoluzione della tradizione è stata un po’ diversa, poiché questi folletti, chiamati “Jolasveinar”, cioè amici del Natale erano, in origine, creature dispettose con il compito di spaventare (e quindi tenere buoni) i bambini troppo vivaci. Da qui la tradizione americana di appendere calze al caminetto già a Natale. Con la nascita del Cristianesimo questo tipo di personaggi si è “fuso” nella figura di San Nicola di Bari, vescovo del IV secolo proveniente dall’antica città di Myra, nell’odierna Turchia. Non è un caso, infatti, che San Nicola sia “divenuto” Babbo Natale: le leggende narrano di un macellaio che aveva ucciso tre bambini ed era deciso a venderne la carne. Il santo, allora, li resuscitò e da quel momento fu ricordato come il protettore dei bambini. Molte sono le storie narrate su San Nicola (e le varianti) e sulla sua generosità come, per esempio, quella che vede il vescovo aiutare i meno abbienti con il suo ricco patrimonio, calando i soldi persino dal camino pur di non essere riconosciuto e rimanere, così, nell’anonimato.
Un’altra leggenda vuole che tre ragazze destinate alla prostituzione, poiché il loro padre era caduto in disgrazia, siano state salvate proprio da San Nicola, il quale lanciò attraverso la finestra della loro casa, per tre sere consecutive, il denaro necessario per la loro dote. Il sant’uomo è patrono di Bari e della nazione russa. Il nome Nicola e l’appellativo di Santo sono diventati, in olandese, Sinterklaas, cioè Santa Claus e il folklore d’Olanda ha contribuito a restituirci la figura che conosciamo oggi, seppur ancora con qualche differenza: un uomo corpulento con una mitra sul capo (ancora c’è “l’influenza” di San Nicola) che vola su un cavallo e porta doni ai bambini attraverso i comignoli delle case. Nel 1823 lo scrittore Clement Clarke Moore scrisse una poesia O almeno a lui è stata attribuita, poiché la prima pubblicazione fu in forma anonima) rimasta famosa “A visit from Saint Nicholas” in cui compare davvero, per la prima volta, il nostro magnifico Babbo Natale nella “forma” tradizionale completa. Dobbiamo tenere conto, però, anche dell’influenza che Nonno Gelo (Ded Moroz), il Babbo Natale russo, ha avuto sull’iconografia a cui siamo abituati: questi è vestito d’azzurro, non ha renne, bensì cavalli e vie che trainano la sua troika (slitta decorata)ne aiutato dalla nipote Snegurochka, ovvero la Fanciulla di Neve (sulla parentela tra i due vi sono delle divergenze poiché, stando alla leggenda, la bambina è figlia di Nonno Gelo e della Primavera; solo in seguito il ruolo è stato cambiato), ma per il resto le figure di Ded Moroz e Babbo Natale collimano. Tutti i bambini sanno che per avere dei doni da Babbo Natale, oltre alla bontà (da mantenere tutto l’anno) e al cibo da lasciargli vicino al camino o all’albero, serve munirsi di carta e penna per scrivergli una lettera (oggi vanno bene anche le email, i folletti addetti alle risposte si sono modernizzati) da inviare in Lapponia, sede storica del Babbo più famoso del mondo (ma su questo punto ci sono diverse teorie: per esempio c’è chi ritiene che viva in Alaska o in Groenlandia). La tradizione della lettera non ha un’origine precisa, ma in alcuni Paesi come il Canada, per esempio, c’è un servizio apposito di risposta alle letterine.
Molti confondono il Natale con la festa ebraica “Hanukkah”, conosciuta anche come Festa delle Luci. In realtà si tratta di due celebrazioni diverse che cadono entrambe il 25 dicembre. “Hanukkah” vuol dire “inaugurazione” e si riferisce proprio alla consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme; il sacro Tempio, infatti, era stato profanato con gli idoli voluti da Antioco IV Epifane (215 a.C.-164 a.C.), il quale aveva messo fuori legge la religione ebraica dopo aver conquistato e saccheggiato Gerusalemme. La rivolta dei Maccabei (narrata nella Bibbia), riportò l’ordine e nel Tempio venne edificato un nuovo altare. La festa dura otto giorni perché, secondo la leggenda, l’olio usato per accendere la Menorah che avrebbe dovuto purificare il luogo sacro bastava per un solo giorno ma, miracolosamente, durò per otto giorni, il tempo giusto per averne dell’altro consacrato. Ancora oggi si usa accendere, durante la festività e secondo un particolare rito, i lumi del candelabro a nove braccia Chanukkiyah (ci sono due scuole di pensiero in merito: o si accendono tutti i lumi e poi, giorno per giorno, se ne spegne uno, oppure si fa al contrario) e mangiare un dolce tipo, il sufganiyah, una specie di bignè fritto proprio con l’olio.
Per chiudere in bellezza, anzi in dolcezza, questo lungo articolo sul Natale, non potevano mancare due protagonisti d’eccezione: il pandoro e il panettone. Il primo è originario di Verona, ma il suo morbido “impasto” ha una storia che risalirebbe al 1800, quando sulle tavole degli aristocratici veniva servito il Nadalin, un dolce più basso e cicciotto dell’attuale pandoro, creato sempre a Verona per celebrare la casata Della Scala e il suo primo Natale veronese. C’è anche un’altra versione secondo la quale il pandoro deriverebbe dal “Pan de oro” veneziano, così chiamato perché ricoperto da sottilissime lamine d’oro. E’ possibile, comunque, che sia il Nadalin, sia il Pan de Oro siano “genitori” del nostro amatissimo pandoro. Nel 1894 Domenico Melegatti, fondatore dell’omonima azienda dolciaria, depositò il brevetto del dolce a forma di stella a otto punte. Quest’ultima particolarità la dobbiamo all’artista impressionista Angelo Dall’Oca Bianca (1858-1942). Anche per quel che riguarda il panettone, l’origine non è del tutto chiara. Sappiamo che nacque a Milano, ma ci sono diverse versioni della leggenda. In una il cuoco di Ludovico il Moro (1452-1508) bruciò inavvertitamente il dolce che aveva preparato a coronamento della cena di Natale. Un servo di nome Toni suggerì, allora, di usare degli ingredienti con cui lui stesso aveva già preparato un dolce in casa sua: uova, burro, farina, scorza di cedro e uvetta. Il cuoco, disperato, acconsentì; non si aspettava certo i complimenti che, poco dopo, sarebbero piovuti da parte di tutti i commensali. Quando gli chiesero il nome del dolce lui rispose: “L’è ‘l pan del Toni” e nacque, così, “Il pan di Toni”, poi divenuto il “panettone”. In un’altra versione, invece, un aristocratico, Ughetto degli Atellani, falconiere del Duca Ludovico il Moro, era perdutamente innamorato di una ragazza di nome Adalgisa, figlia di un fornaio di nome Toni.
Pur di conquistarla, Ughetto si fece assumere come aiutante nel forno e, per risollevare le sorti economiche della famiglia di lei, rubò due falconi del duca, vendendoli in cambio di burro e farina. Con questi ingredienti e ispirato da Adalgisa, il giovane nobile creò proprio il panettone, che ebbe un successo straordinario durante le feste di Natale. Inutile dire che la storia ebbe un lieto fine con tanto di matrimonio tra Ughetto e Adalgisa. La cosa certa, al di là degli aneddoti, è che il pane di frumento, fino alla fine del Trecento, non poteva essere venduto al popolo, in quanto privilegio dei nobili. L’unica eccezione alla regola era rappresentata dal periodo natalizio, in cui i fornai potevano donare ai clienti meno ricchi questo “pane bianco” e questa regola, a quanto pare, fu il vero “motore” per la creazione del panettone, cioè un pane “diverso”, più ricco di ingredienti da mangiare in un momento speciale. Il vero significato del Natale, quindi, si frammenta in più racconti, per poi convergere in un’unica storia lunghissima, fatta di origini religiose, mitiche, leggendarie, aristocratiche, centro ed est europee, di personaggi e di tradizioni che arricchiscono la nostra vita, il nostro cuore e, soprattutto, la nostra spirito che tende sempre alla vita e alla gioia. Perché questo è il vero spirito del Natale. (articolo di Francesca Rossi)