Parigi, il terrorismo e il vero significato del ǧihād?

Il terrorismo a Parigi? Non è (ancora) un assedio come quello che sconvolse Vienna nel 1683, colpendo al cuore l’intera Europa, ma è una situazione altrettanto grave. Certo, cambiano modalità, armi usate e condizioni politiche ma non lo scopo, ovvero l’assoggettamento, la conquista. Gli attentati che hanno ridotto Parigi allo stato d’emergenza non possono essere sottovalutati, né finire nel dimenticatoio quando sarà passata l’ondata emotiva. In queste ore i social network e i giornali sono pieni di messaggi di dolore e cordoglio, ma anche d’odio. Tutto comprensibile, ma non dimentichiamo mai che proprio l’odio e la violenza sono il contrario della razionalità, l’annullamento dei diritti in nome della vendetta e ci portano a sprofondare nell’abisso di ignoranza e malvagità in cui già vive chi desidera il male di quanti non hanno il suo stesso pensiero o credo. Ciò non significa porgere l’altra guancia, ma avere l’intelligenza e la lucidità per comprendere e analizzare ciò che sta accadendo e tentare, in tutti i modi, di ripristinare l’equilibrio e la condizione pacifica che ci è stata tolta.

Lo sappiamo, i problemi da affrontare per riuscire ad arginare fino ad annullare la piaga del terrorismo sono molti e non riguardano soltanto la politica estera e la diplomazia, ma anche la gestione degli affari interni a ciascun Paese, europeo e non. C’è però, un concetto su cui potremmo soffermarci per cercare di capire cosa sta accadendo e quali sono le vie d’uscita possibili. Sentiamo spesso parlare di ǧihād, ma cosa significa questa parola? Perché è usata, di nuovo, proprio ora e cosa hanno in comune (ammesso che vi siano similitudini) i tentativi di ǧihād del passato con quello odierno? Se torniamo alla radice di questa definizione, possiamo comprendere l’attualità (ovviamente non giustificare, ma è meglio essere precisi) e approfondire il passato.

Ǧihād è un termine arabo maschile la cui radice esprime il significato di lotta, sforzo. Questo tipo di sforzo è sempre compiuto “sulla via di Dio” (fī sabīli llāhi- الله سبيل في in arabo), ovvero è teso al raggiungimento dell’obiettivo seguendo l’insegnamento e il dogma divino. Molti, però, non sanno che ǧihād non è sinonimo di “guerra santa” e non annovera questa espressione tra i suoi significati. Non solo: nel Corano non si parla mai di “guerra santa”, modo di dire nato con le Crociate, per l’esattezza lo si ritrova attestato, per la prima volta, in una predica di Pietro l’Eremita risalente al 1096. Quando, dunque, l’Isis o, in generale, il terrorismo islamico si riferisce alla guerra santa contro l’Occidente e contro i suoi “crociati”, sta utilizzando categorie di pensiero e terminologia che non appartiene all’Islam originario.

parigi-terrorismo- significato del ǧihād

Le stesse Crociate ebbero risonanza totalmente diversa nel mondo cristiano e in quello musulmano, visto che in quest’ultimo non ebbero un valore di “spartiacque” storico e politico, benché l’importanza del fatto in sé sia innegabile. Non esiste, poi, un solo tipo di ǧihād, bensì due: il grande ǧihād e il piccolo ǧihād. Il primo è quello meno conosciuto benché il più importante, poiché implica uno sforzo su se stessi, una lotta interiore per divenire persone e fedeli migliori. In un certo senso, per capire meglio, anche imparare bene qualcosa, per esempio una lingua nuova, può essere considerato un grande ǧihād.

Il secondo è quello che crea più problemi di interpretazione, poiché intende lo sforzo bellico (non guerra santa, ribadiamo che le due cose vanno tenute separate). Tale sforzo bellico, però, dovrebbe essere contestualizzato, cioè bisognerebbe capire da dove nasce e cosa sottintende: stando agli studiosi del Corano e alle esegesi che si sono susseguite nel tempo, il ǧihād sarebbe una guerra di difesa e non di offesa. A questo punto, però, tutti comprendiamo che scindere esattamente, caso per caso, l’attacco a scopo difensivo da quello a scopo offensivo non è sempre facile e la stessa definizione può dar luogo a equivoci (tra l’altro, non tutti gli esegeti concordano sulla guerra difensiva e il dibattito è ancora aperto). Se, in più, poniamo tale concetto nelle mani di chi può manovrarlo, approfittando di punti di ambiguità tanto nel significato, quanto nell’applicazione, abbiamo un grosso, ulteriore problema.

Per comprendere meglio, allora, torniamo indietro nel tempo, all’origine dell’Islam: immaginiamo una nuova, giovanissima religione che lotta per sopravvivere e crearsi un equilibrio interno ed esterno, ovvero di convivenza con le altre religioni. Teniamo conto del fatto che l’obiettivo finale, in casi simili, è sempre far trionfare la “propria verità” ma, in una fase di costruzione della società islamica sui cardini della fede in Allah, questo è un passo successivo. In una prima fase, per il profeta Muḥammad, era importante ottenere la vittoria sulla popolazione de La Mecca politeista che lo aveva costretto alla fuga.

Non è un caso, infatti, che nel Corano le sure medinesi (cioè i capitoli nati nel periodo di esilio a Medina, sottintendano con forza maggiore lo sforzo bellico, al contrario di quelle meccane). In tal caso la lotta difensiva era un modo per proteggere il neonato Islam, ma è comprensibile che alla difesa la nostra mente sovrapponga, seppur parzialmente, anche l’offesa che sta nella conquista del nemico, ovvero del diverso dal punto di vista religioso. Di fatto, però, questo è il contesto storico, la salvaguardia del credo islamico che può consentire la sua sopravvivenza. Muḥammad e i suoi successori più vicini erano più interessati a mantenere il carattere puramente arabo dell’Islam che a far proseliti o costringere i seguaci di altre fedi all’abiura. Ciò è evidente nella pratica della dhimma, il pagamento di una tassa ai conquistatori musulmani che consentiva ai fedeli delle grandi religioni monoteistiche di vivere in relativa tranquillità e continuare a professare la loro fede e avere un numero limitato di diritti (nota importante: le cose non furono sempre così semplici e non mancarono tensioni anche gravi nel corso della Storia tra musulmani e popoli conquistati, ma adesso limitiamoci alle basi del discorso).

Certo, le conversioni erano accettate ma non ricercate e, comunque, rimaneva un certo divario tra il “vero arabo-musulmano” e il “nuovo musulmano”. Questo equilibrio non poteva essere eterno: l’Islam cresceva, si espandeva, veniva a contatto con nuove genti, apprendendo da queste le regole per amministrare, far prosperare e governare uno Stato; ben non fu più possibile tenere il nucleo arabo lontano da normali e ovvie “contaminazioni” etniche e culturali, che spesso seguono l’asservimento di nuovi territori. A quel punto, lentamente, prevalse il carattere islamico su quello arabo, un processo che iniziò con la dinastia Omayyade (661-750) e trovò compimento in quella Abbaside (750-1258).

Da qui si formarono due blocchi contrapposti, dar al-Islām e dar al-ḥarb, letteralmente “la casa dell’Islam” e “la casa della guerra”; la prima è il territorio sotto dominio musulmano, la seconda tutto ciò che si trova al di fuori di questo dominio. Per i musulmani, che avevano ormai alle spalle un impero che si consolidava giorno per giorno, i Paesi non assoggettati divennero mete di conquista e obiettivi di islamizzazione su scala mondiale. Così il ǧihād trovò espressione sempre più concreta e codificata: per esempio il Califfo era l’unico ad avere la prerogativa di lanciare un ǧihād (oggi la carica di Califfo, così come la intendono i terroristi, non ha più nulla della natura, della legittimità e della valenza originarie). Nel tempo il concetto si è trasformato, andando incontro alle esigenze politiche delle dinastie, plasmandosi sulla ricerca del potere che non lascia scampo a chi viene sottomesso: o la conversione, o la schiavitù.

Questo sarebbe stato l’epilogo dell’assedio di Vienna già citato, se la parte cristiana avesse perso la guerra. Forse questo sarebbe l’epilogo se noi, oggi, sottovalutassimo il problema. Nei secoli passati mondo musulmano e mondo cristiano si fronteggiavano militarmente, culturalmente e politicamente. Erano entrambi in ascesa e il periodo coloniale ha creato un indebolimento tanto dell’identità islamica, quanto del concetto stesso di ǧihād. Il terrorismo continua a giocare molto, tra le altre cose, sul senso di rivalsa, sulla vendetta nei confronti di chi è considerato infedele (precisiamo, però, che anche i cristiani chiamavano infedeli i seguaci di altre confessioni) e, nello stesso tempo, è riuscito ad “assoggettare” (sul colonialismo bisognerebbe fare una trattazione a parte) diversi Paesi dell’universo islamico.

 

In Occidente abbiamo capito e ci abbiamo messo molto tempo e troppo sangue, che non è lecito uccidere in nome di nessun dio e che ognuno ha diritto di esprimere se stesso pur rispettando gli altri: nella pratica, oggi nessuna nazione a maggioranza cristiana ha in mente di sottomettere, terrorizzare o uccidere i musulmani o, in generale, Paesi di fedi o tradizioni diverse. Allo stesso modo, non finiremo mai di ribadirlo, i musulmani non sono tutti uguali, al contrario! Detto questo, però, abbiamo il problema opposto: per alcuni (continuo a sostenere che non siano la maggioranza, benché il risultato, purtroppo, non cambi) non abbiamo diritto di essere liberi e ciò che abbiamo conquistato nel cammino del pensiero, quindi della filosofia e della teologia, sarebbe frutto di una corruzione derivante da errate convinzioni religiose che si sono riverberate sulle odierne società.

Questo sarebbe un motivo per muovere il ǧihād contro l’Occidente, insieme alla follia, alla crudeltà, alla cattiveria, alla sete avida di potere di chi ha completamente travisato il messaggio di uguaglianza e rispetto che, almeno in linea teorica, sta alla base di ogni credo. Ǧihād diventa, così, un espediente per giustificare la violenza, ammantandola di religiosità. Ǧihād diventa, così, sinonimo di terrore e di violazione dei più elementari diritti, fraintendendo ed estremizzando il concetto. In questa situazione, che assume sempre più i contorni foschi di una battaglia, sono la libertà, non selvaggia ma pensata, il rispetto, non il buonismo né il servilismo, la ragione, non il sofisma fine a se stesso, le cose per cui lottare e non vi è una nazione più autorevole o capace dell’altra, ma lo sforzo congiunto e concreto di tutti. L’orrore di Parigi, la sospensione della quotidianità in un alone di attesa e paura, non deve diventare normalità, perché è ciò che il terrorismo vuole, è la carta vincente per quanti seminano odio e si aspettano altro odio e confusione e per quelli che, aspirando al martirio, dimostrano sprezzo della vita e credono di non avere nulla da perdere. Noi, invece, abbiamo moltissimo da perdere; non dobbiamo assuefarci alla paura e neppure alla violenza; la Storia ci ha insegnato che possiamo ricacciare il pericolo con fermezza e senza perdere i nostri valori e la nostra identità. Sta a noi dimostrare che sappiamo ancora agire in questo modo e abbiamo l’onestà intellettuale e l’intelligenza per farlo.

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