Olympic Stadium di Montreal, luglio 1977. I Pink Floyd si esibiscono di fronte a ottantamila persone in delirio. Il pubblico canta, urla, beve. Roger Waters è stanco, spossato da mesi di tour.
Un ragazzino in prima fila attira la sua attenzione, lo infastidisce mentre suona, è rumoroso, seccante. Il bassista perde la testa. Lo chiama, lo fa avvicinare e gli sputa dritto in faccia. Subito dopo si rende conto della gravità del suo gesto, si sente “un fascista”, pensa di essere pazzo.
Capisce che lui, il frontman di una delle band più amate del pianeta, ha eretto un muro tra sé e il mondo, tra sé e chi gli sta vicino, tra sé e il pubblico.
Questa è la genesi di The Wall, doppio album dei Pink Floyd pubblicato il 30 novembre di trentacinque anni fa. Una pietra miliare della storia della musica che insieme a The Dark Side of the Moon è considerato uno dei dischi simbolo della band inglese.
Tanto amato, quanto criticato. Alcuni lo ritengono una delle migliori opere del quartetto, altri lo vivono come un tradimento, un voltare le spalle alla sperimentazione per piegarsi a un suono più commerciale e “orecchiabile”. La verità è che a più di tre decadi di distanza, risulta quasi impossibile ignorare la grandezza di un lavoro così, dove parole e musica si fondono alla perfezione per raccontare una vita fatta di solitudine, paranoia, droghe, insofferenza sociale, demoni privati e pubblici.
The Wall parla della storia di Pink, personaggio fittizio dietro il quale Waters racconta le sue psicosi e i suoi dolori: la morte in guerra del padre (Goodbye Blue Sky), il rapporto soffocante con una madre iperprotettiva (Mother), l’educazione autoritaria e reazionaria ricevuta a scuola (Another brick in the wall), l’insensibilità nei confronti delle sofferenze che la vita gli ha inflitto (Comfortably Numb).
Non a caso l’album viene definito concept, perché ogni canzone, pur rimanendo un unicum, si fonde con la precedente e con la successiva, rappresentando un mattone di quel muro che il protagonista costruisce per isolarsi dal mondo.
Un muro che alla fine viene abbattuto, simboleggiando una rinascita difficile da ottenere, ma rigenerante (Outside the wall). 26 brani che ci mostrano un’esistenza tormenta che raggiunge una nuova dimensione, una nuova consapevolezza acquisita dopo il crollo di ogni barriera: “Da soli o a due a due, Quelli che davvero ti amano, Vanno e vengono al di là del muro, Alcuni mano nella mano, Altri riuniti in gruppi, Quelli sensibili e gli artisti, Cercano di abbatterlo, E quando ti avranno dato il meglio di loro, Qualcuno barcollerà e cadrà, Dopotutto non è facile, Picchiare il cuore contro il muro di un folle”.
Ma la storia non si racconta solo con le parole, ma anche con la musica. In The Wall vincono la qualità del suono, gli incredibili arrangiamenti di Bob Ezrin, il packaging dei creativi. Le tastiere di Wright (temporaneamente espulso dal gruppo) lasciano spazio alle orchestre e al pianoforte, la batteria di Mason crea una musicalità più dura (In the flesh?) che si fonde con il rumore di elicotteri e mitragliatrici, la chitarra di Gilmour ci regala assoli che con Comfortably Numb raggiungeranno uno dei punti più alti della sua carriera.
The Wall è un disco profondamente diverso dai precedenti, in cui la mano di Waters controlla ogni cosa. Un album inquieto, evocativo, monumentale, un’opera che ci permette di scavare dentro noi stessi e di tirar fuori i nostri scheletri mentre le canzoni scorrono una dopo l’altra.
Al cd e al vinile seguiranno uno show memorabile e un film di Alan Parker in cui Pink viene interpretato dallo straordinario Bob Gendolf, tutti tasselli di uno stesso muro che completa una storia di vita. Una vita che a trentacinque anni di distanza sembra più attuale che mai.
Vittoria Patanè