Tong Men – g (Porta di bronzo, stesso sogno) di Cristina Pezzoli e Shi Yang Shi è andato in scena al Teatro Brancaccio, in un’unica data, il 22 settembre
Il mondo appare come un’enorme, elegante pralina di cioccolato con cui giocare allegramente, finché qualcosa non si rompe. Quasi un sogno primordiale. L’operaio Yang cerca il guasto tra il pubblico, spiritosamente, ma capisce subito che il problema è nelle fratture del globo. Il nostro, il suo. Una crisi di identità totale, non solo nel ragazzo cinese che con eleganza e bellissima presenza scenica sale e scende dal palco nella sua tuta aderente ricca di simbologie miste: cinesi, italiane, forse anche di altri Paesi.
Il mondo, per lui, è una Porta di bronzo chiusa (Tong Men-G) e si ha bisogno delle chiavi giuste per aprirla e, forse, capire di più, risolvere l’interiore dicotomia. Invita il pubblico ad aiutarlo, facendo tintinnare le loro, e nel suono magico di centinaia di chiavi nella platea del teatro, Yang inizia la sua ricerca tra le radici della sua famiglia. Sacchi di riso da cui estrae vestiti e con i quali veste i ricordi, trasformandosi, di volta in volta, ora nei bisnonni paterni, ora nella trisavola materna e via via nei parenti più prossimi, fino al nonno materno, al padre e allo zio down. Ripercorre, insieme a loro, la storia della Cina, dalle più antiche tradizioni fino alla speranza (poi rivelatasi follia) maoista, le sue violenze, le ingenuità del padre, Guardia Rossa. Lo fa con ironia, garbo, eleganza nei movimenti, mimica eccellente, con la difficoltà ulteriore della doppia lingua. Sì, perché ogni passaggio, ogni concetto è espresso in italiano e in cinese, a volte prima l’uno poi l’altro, alternativamente. Ricostruito l’albero genealogico, il libro degli antenati, sembra giunto alla conclusione che indubbiamente è figlio di tutto ciò e quindi cinese.
Ma… c’è un “ma”, perché Yang (classe 1979) arriva in Italia nel ‘90 all’età di 11 anni insieme alla madre, in cerca di un futuro migliore. Lascia radici ancora fresche per cercarne di nuove, sconvolgendo le sue già poche e precarie certezze. Viaggi avventurosi, venditore ambulante sulle nostre spiagge, lavapiatti, traduttore “di lusso” per imprenditori e registi, gli studi durante i lavori più umili. La decisione di migliorare, l’università Bocconi, Milano, l’Accademia teatrale, la televisione. Ma non sa più cosa sia diventato. Per gli italiani è un cinese e per i suoi connazionali è “una banana”: giallo fuori e bianco dentro. Racconta tutto questo nel suo monologo, Yang, faticando non poco per i continui cambi costume e il caldo ancora estivo, con toni tragicomici, fino ai giorni d’oggi, che spesso lo vedono mediatore e interprete nei conflitti tra la comunità cinese di Prato (capitale del “pronto-moda”) e i residenti locali. Nella sua tutina attillata, quasi un moderno Arlecchino traduttore e traditore di due padroni (come giustamente viene definito nella sinossi), Yang non sa rispondere alla domanda “Ma tu, da che parte stai?”. Forse la soluzione non c’è, forse la Porta di bronzo è destinata a richiudersi. Prima di andarsene, carico di tutti gli elementi di scena (e delle due vite fin qui vissute) sulle spalle, lancia un suggerimento, ispirato da una tradizione giapponese (paradossalmente nemici della sua nazione per tanti anni): gli oggetti rotti venivano aggiustati e rimessi insieme sanando le fratture con l’oro, non con la colla, per valorizzarle e renderle preziose quanto e più dell’oggetto stesso. Forse è l’unico, saggio e difficile equilibrio praticabile. La scenografia alle sue spalle, suggestiva, illumina le fratture di un piatto con rivoli dorati. Buio, applausi.
Lo spettacolo prodotto da Compost Prato è il primo, in Italia, con un protagonista cinese “di seconda generazione”. Shi Yang Shi è senza dubbio molto bravo, comunicativo e con una mimica molto elegante e aggraziata, nonostante la statura notevole. Qualche perplessità destano i ritmi della pièce, a tratti troppo lenti, soprattutto per un monologo che, in questo caso, essendo in doppia lingua e rivolto ad un pubblico misto, necessiterebbe di tempi più serrati. Le scene e i costumi, di Rosanna Monti, sono molto belli.
Paolo Leone
- Si ringrazia l’ufficio stampa del Teatro Brancaccio nella persona di Silvia Signorelli