Due famiglie disfunzionali al centro di un cupo thriller drama: la “questione morale” secondo Susanne Bier. Il trailer di Second Chance, trama e recensione del film in questi giorni nelle sale cinematografiche.
Voto: [usr 3]
Il cinema di Susanne Bier, regista e sceneggiatrice danese vincitrice di un Premio Oscar nel 2011 per In Un mondo migliore, si è definito, fin dall’esordio nel 1991, come spazio-tempo filmico di riflessione sull’arbitrio umano e sulle scelte morali che innescano (spesso) drammatiche conseguenze per l’individuo e la sua comunità di riferimento. Nella messa a fuoco di conflitti generazionali e familiari, l’occhio indagatore della cineasta, allieva di Lars von Trier, ama soffermarsi sul regresso della società, sulle leggi del branco che deturpano la vita civile, sul confronto/scontro tra povertà e ricchezza e, non in ultimo, sulla narrazione drammatica che accoglie il lascito arcaico della tragedia classica. Gioca al massacro, la regista, anche e soprattutto in Second Chance, sui nostri schermi dal 2 aprile. Massacro di innocenti in questo caso, perché al centro di aspre contese e guerre intrafamiliari, ci sono due infanti e un perverso istinto che sviscera in tutta la sua nefandezza la “cattiva maternità” e le sofferenze per la terribile elaborazione di un lutto. Andreas e Anna, divenuti da poco tempo genitori del piccolo Alexander, sono una coppia all’apparenza felice. Tristan e la compagna sono invece due tossici disadattati che, tra una dose e l’altra, lasciano letteralmente marcire nella sporcizia delle proprie feci e urine il loro piccolo Sofus. Le storie delle due famiglie sono destinati a incrociarsi tragicamente, anche perché Andreas è una vecchia conoscenza di Tristan ed è proprio il primo, agente investigativo, a scoprire dopo una perlustrazione le condizioni in cui versa il piccolo Sofus a causa del padre violento e della madre schiavizzata a suon di botte ed eroina. Scosso dalla morte improvvisa di Alexander, il figlioletto di sette mesi, per aiutare se stesso e la moglie sull’orlo della follia, Andreas decide di compiere un gesto turpe: si infiltra in casa di Tristan e, improvvisandosi sequestratore di neonati, porta via Sofus e lo sostituisce col corpicino senza vita del suo Alexander, producendo conseguenze imprevedibili che sfociano in una spirale di morte e devastazione. Impossibile liquidare Second Chance in maniera sbrigativa, come la gran parte della critica internazionale ha fatto. Quello che molti hanno definito un prodotto artefatto, da deriva televisiva, è in realtà un freddo assunto sulla crudeltà umana che ha sì, il suo unico limite nel travestirsi da apologo moraleggiante per condannare e punire soprusi domestici, ma che in filigrana nasconde contenuti più stratificati che oppongono categorie di pensiero smaccatamente filosofiche come l’utile, il dovere morale e la responsabilità dell’individuo. Incastonando incipit ed epilogo in inserti naturalistici e dunque simbolici, in quanto rappresentano il tempus fugit e il flusso della vita (acque che scorrono), liquidità subito bloccata da foreste che fanno pensare all’iter labirintico in cui si muovono i personaggi, Second Chance inscena la tragedia moderna dell’alienazione contemporanea. Due coppie isolate sono strette in una misantropia che allontana ogni vicinanza col prossimo e le loro scelte, sempre in bilico tra lecito e illecito, configurano un percorso di decadenza fisica (perché la morte, così come il disfacimento corporale, sono sempre dietro l’angolo) e corruzione etica. Le loro azioni, istintive e poco meditate, diventano quindi espressioni di un profondo disagio sociale che accomuna tanto la piccola borghesia (il poliziotto e sua moglie), quanto la coppia tossicodipendente di emarginati. La regista sembra chiedersi e chiederci se è giustificabile compiere un gesto malvagio per un fine ritenuto superiore. Può un agente di polizia ergersi al di sopra della legge e di ogni sospetto rapendo un bimbo in fasce per salvare la moglie dalla depressione e lo stesso inconsapevole “oggetto del desiderio” che nella vecchia famiglia sarebbe finito male? Susanne Bier ci racconta tutto questo attraverso macchinazioni subdole di protagonisti senza scrupoli e depistamenti seguiti dalla macchina da presa attraverso gli intensi primi piani, quasi a voler radiografare il dolore o a voler circoscrivere la rabbia dentro i volti irrigiditi e gli sguardi vuoti. La tensione, sempre altissima, è tutta giocata sul filo dell’emozione, sullo svelamento del prossimo tranello che annuncia un nuovo ribaltamento narrativo e che si legge in faccia ai protagonisti in modo chiaro, senza infingimenti o false retoriche. Coinvolgente fino alla fine, il film disegna, forse peccando di eccessivo didascalismo, i deliranti scenari dopo la decisione di Andreas che fa del male al solo scopo di fare del bene. Second Chance non è un film perfetto, ma un’opera complessa e sfaccettata che risulta straniante proprio perché racconta l’ordinaria follia che si nasconde nelle relazioni familiari. Un delirio tanto più feroce perché strumentalizza i figli fino a ridurli alla stregua di preziosa merce di scambio.
Trailer del film Second Chance
Vincenzo Palermo