Skunk Anansie e il nuovo album Anarchytecture: recensione – Strano Paese l’Italia, un posto in cui l’eco di un album in uscita non dipende dalla qualità dei suoi brani o dalla fama di un gruppo, ma dal successo televisivo di uno dei suoi componenti. Una Nazione in cui, senza cognizione di causa si parla di ritorno degli Skunk Anansie, nonostante la band abbia pubblicato ben tre dischi (più un live) dalla reunion avvenuta in realtà nel 2009. Non ieri, né l’altro ieri, ma sei anni fa. Anche se a quanto pare da noi non se n’era accorto nessuno. Skin (voce, chitarra), Cass (voce, basso), Ace (chitarra, cori) e Mark Richardson (batteria) si unirono negli anni Novanta. Il successo, quello vero, arrivò con il meraviglioso Post Orgasmic Chill (l’album di Secretly e You follow me down per intenderci), nonostante sia Hedonism che Stoosh avessero già ottenuto un discreto ritorno di pubblico. La separazione arrivò nel 2001, anno in cui i componenti della band decisero di percorrere strade diverse, una scelta che per Skin si tradusse nella pubblicazione di Fleshwounds (2003) e Fake Chemical State (2006). Nel 2008 l’annuncio del ritrovato amore tra i vari membri della band. A riconquistare quello del pubblico ci pensò il brano Because of You, uscito 14 settembre 2009 come primo singolo ufficiale del greatest hits Smashes & Trashes. Nel 2010 uscì Wonderlustre, mentre due anni dopo fu il turno di Black traffic. Due lavori che però non riuscirono a convincere pubblico e critica quanto i precedenti.
Oggi è il turno di Anarchytecture, album uscito lo scorso 15 gennaio e attesissimo in Italia. Il merito però, non sembra essere del singolo Love Someone Else, pubblicato lo scorso novembre, né a ben vedere degli altri 10 inseriti in setlist. A risvegliare l’interesse degli italiani nei confronti degli Skunk Anansie, una band che nonostante i molti alti e bassi in vent’anni di carriera ha sempre dimostrato il suo valore, pare essere stata più che altra la popolarità acquisita da Skin per la sua partecipazione nella veste di giudice a XFactor Italia. E allora prima di analizzare nel dettaglio l’ultima fatica della band britannica distribuita in Italia dalla Carosello Records vogliamo fare una premessa: siamo lieti che finalmente, la potentissima voce della cantante abbia finalmente sostituito l’italiano stentato e la voce stridula del giudice. E’ questa la Skin che ci piace e che vogliamo sentire. Tornando al disco, il nome è già tutto un programma: anarchia e architettura. Due termini che si configurano in ossimoro tra loro, ma che vengono fusi insieme allo scopo di descrivere una vita piena di contraddizioni: «Per ognuno di noi quattro – ha dichiarato la “frontwoman” - questo titolo significa qualcosa di diverso, di personale, ma quello che intendiamo è che se si fanno scontrare due cose diverse ne nascono vibrazioni che sono il seme della creatività». Prodotto da Tom Dalgety ai RAK Studios di Londra, mixato da Dalgety &Jeremy Wheatley e masterizzato dal celeberrimo Ted Jensen agli Sterling Sound Studios di New York, Anarchytecture è stato anticipato dai singoli Love Someone Else e Death to the Lovers, (quest’ultima una potente ballad che fa pensare agli Skunk Anansie di un tempo presentata domenica 17 gennaio a Che tempo che fa, su Rai Tre e da martedì 19 in radio).
L’album possiede le caratteristiche che la band è riuscita a cucirsi addosso nel corso degli anni: è diretto, è moderno. Ma è soprattutto elettronico, più elettronico degli altri. A ben guardare è un disco semplice da ascoltare, un lavoro in cui la chitarra elettrica viene estrapolata dal mondo in cui è nata (il rock) per piegarsi all’elettronica e ai suoni tipici della realtà odierna. Nel complesso, il disco si presenta come un mix di canzoni cupe, colme di un’energia dolorosa che sembrano tradurre in musica la sofferenza vissuta da Skin per la separazione dalla compagna Christian Wyly. L’immagine della donna domina l’intero lavoro, dall’inizio alla fine. C’è ad esempio nel singolo Love Someone Else, il cui titolo non lascia spazio a dubbi sul messaggio che vuole lanciare. In tre minuti e mezzo di canzone, Skin torna a conquistare tutti con la sua voce potente, sostenuta da una ritmica elettrodance e da una chitarra distorta che resta sullo sfondo. Suoni che avevano già lasciato presagire quale sarebbe stato il “tono” del disco. Con Beauty is yuor curse si passa a un riff vecchio stampo, mentre il beat triphop della ballata Death to the lovers sembra sovvertire i ritmi. In the black room ritorna la dance mentre Bullets è un pezzo dal carattere politico che sembra raccontare la realtà che ci circonda. Con That sinking feeling, forse uno dei pezzi più riusciti dell’intero album, sembrano ritornare gli Skunk Anansie degli albori, la band rock che aveva stupito tutti grazie alla sua potenza e alla sua energia. A livello generale, l’album vince ma non convince. Manca un “in più” che lo trascini, non ci sono quei tre o quattro pezzi di elevata qualità distribuiti qua e là per far spiccare il volo a un disco che non può andare oltre un giudizio in chiaro scuro: buono, ma non ottimo. Un lavoro costruito seguendo l’ossessione della modernità che però suona come qualcosa di già sentito, già ascoltato in precedenza per stessa mano degli Skunk Anansie. Simile al passato, ma non altrettanto efficace e persuasivo. In ultimo, impossibile non concludere con una menzione speciale per Skin, colei che tiene in piedi la baracca grazie a una voce che, messa al servizio della sua musica, riesce a superare qualsiasi barriera linguistica arrivando dritta allo stomaco. Potrebbe cantare anche in aramaico, quello che vuole esprimere lo capiremmo ugualmente.