Il Teatro degli orrori, la recensione dell’ultimo album
Pierpaolo Capovilla è un personaggio unico nel panorama musicale italiano e, come spesso accade per uomini come lui, all’inizio erano molti a chiedersi se “ci era o ci faceva”. A dieci anni dal debutto del Teatro degli Orrori, la risposta è ormai chiara a tutti: c’è, eccome se c’è. Il dubbio a questo punto riguarda più il “cosa” che il “chi” e l’ultimo album pubblicato lo scorso 2 ottobre, non aiuta a comprendere bene dove finisca il musicista e dove cominci l’attore, l’antropologo, il sociologo, l’economista, lo psichiatra dell’animo umano e della società contemporanea.
Un album senza nome, «No anzi ce l’ha: ha lo stesso nome della band», ha dichiarato il frontman. Ma anche se non l’avesse, aggiungiamo noi, non ne avrebbe bisogno. Perché ciò che vuole dire arriva chiaro e forte, come una sveglia che ti riporta alla realtà dopo un sonno profondo che ti annebbia il pensiero. E lo fa con una poeticità rabbiosa che invece di confondere chiarisce, illumina, apre gli occhi su ciò che prima non riuscivamo a cogliere, su aspetti del nostro stesso mondo che neanche prendevamo in considerazione. Ma ci sono e il gruppo ce li mette davanti agli occhi con una crudezza disarmante, descrivendoli con un vocabolario sonoro che li concretizza e li rende ancora più duri.
L’album è un racconto suddiviso in dodici storie, storie che per Pierpaolo Capovilla, Gionata Mirai, Giulio Ragno Favero e Francesco Valente (e per i nuovi membri Marcello Batelli – chitarra – Kole Laca – tastiere – ) sono l’occasione per un “ritorno alle origini” per un nuovo debutto che significa ritornare all’essenza della loro musica. L’Italia “Dell’Impero delle tenebre” non esiste più. Ma questo non vuol dire che sia un Paese migliore, anzi è una Nazione cupa, buia, che ha bisogno di tutto il sarcasmo di Capovilla per essere descritta. Il ritratto è desolante, ma la potenza e l’energia del suono non permettono a nessuno di buttarsi giù. Le tastiere ti destabilizzano, la ritmica ti riempie di adrenalina, le strofe recitate ti colpiscono come un pugno. Non c’è tempo per la disperazione, ma per la rabbia sì.
Il Teatro degli Orrori è certamente il disco più politico che il gruppo abbia mai creato. Ce n’è praticamente per tutti: per il PD, per il Governo, per gli speculatori finanziari e per i “fascisti in divisa”. Ma anche per il nostro disinteresse e la nostra indifferenza nei confronti dei profughi che scappano dalla guerra e dalla morte, peri i danni disumani degli psicofarmaci e per un Paese che non sa più amare.
Canzone dopo canzone la band descrive un’Italia spaccata in due, in cui i buoni dovrebbero lottare contro i cattivi e invece rimangono a guardare una Nazione che si autodistrugge o che forse ha già finito di farlo. La Paura, brano d’apertura, parla di un Paese in cui i giovani sono attanagliati dal terrore e non riescono a ribellarsi a uno Stato che nega loro il futuro. Il racconto continua con Cazzotti e Suppliche, dove la sconfitta si mescola con la rabbia e la voglia di reagire. Il lungo sonno (Lettera Aperta al Partito Democratico) è l’urlo di ribellione di chi in passato in quel partito ci aveva creduto e che adesso prova una sorta di repulsione per ciò che è diventato, ma è Una donna la canzone che ti strazia davvero. Nel libretto il testo non c’è, sostituito dalla foto di una ragazza. A spiegare chi sia è il cantante: una ragazza yazida, appena quattordici anni e un kalashnikov al posto della borsetta. Sta scappando dall’Isis insieme alla sua famiglia. «Lo scatto la coglie mentre si volta, coglie il suo sguardo straordinario: in questa foto c’è la contemporaneità. Non parla solo del dramma dei profughi, di questa incredibile migrazione. Parla anche di noi, dei nostri egoismi, della nostra indifferenza. Per questo ho messo solo l’immagine: il testo è quella ragazza».
Benzodiazepina racconta i drammi che possono causare gli psicofarmaci e l’industria che su di essi si arricchisce, mentre con Disinteressati e Indifferenti si torna sui giovani e sulla perdita di valori che stanno vivendo. Il ritratto che Il Teatro degli Orrori dà di quest’Italia è angosciante, dal primo all’ultimo pezzo la società ne esce distrutta, ma in chiusura arriva un barlume di speranza, Una Giornata al sole che illumina tutto, grazie al tempo che dedichiamo all’amore e a noi stessi.
Pierpaolo Capovilla ha descritto questo album come un ritorno al passato. E in effetti i suoni distorti, gli strappi, le mitragliate di basso e batteria, le note taglienti della chitarra, il mix tra musica e poesia ci ripresentano un’identità che forse in Il mondo nuovo risultava meno visibile e accessibile. L’impatto dell’ultimo album, diviso tra invettiva e predica, è fortissimo, mentre le tastiere di Kole Laca regalano all’ultima fatica del gruppo, quel quid in più che stupisce.
Il disco, secondo le dichiarazioni della band, è costruito per il palcoscenico, si comincia in studio, ma è il live ciò che interessa. E’ comunicare quella rabbia e farla diventare un sentimento condiviso che spinga all’azione, che porti a costruire un Paese diverso. E, nel caso non ci sia più speranza, quanto meno c’è il rock del Teatro degli Orrori. Voto: [usr 3.5]