La recensione dello spettacolo con Chiara Francini ed Emanuele Salce “Ti ho sposato per allegria”. Visto il 12 novembre 2014 al Teatro San Babila di Milano. Lo spettacolo proseguirà la tournée fino a gennaio 2015: il 2 dicembre ad Aosta e dal 7 all’11 gennaio 2015 in Sardegna
Natalia Ginzburg è sempre stata un’autrice attenta alla figura femminile, quasi precoce in alcuni approcci (se si pensa ai suoi tempi). “Ti ho sposato per allegria” è stata la sua prima opera teatrale (scritta nel 1964), qui la realtà quotidiana che nei lavori di narrativa era colta nel proprio fluire, si arricchisce di leggerezza.
Ed è questa la chiave che emerge immediatamente nella messa in scena curata da Piero Maccarinelli e cifra, in particolare, di Giovanna, interpretata alla perfezione da Chiara Francini. Dopo pochi minuti dall’apertura di sipario, lo spettatore apprende che son sposati da una settimana e che si conoscono da un mese – e questo potrebbe far inorridire, anche oggi, le orecchie dei benpensanti, eppure, man mano che la pièce va avanti, si scopre che l’amore c’è, non solo l’interesse.
La Ginzburg ci schiaffeggia a suo modo, sì perché per quanto Giovanna stuzzichi suo marito (Emanuele Salce) giocando con lo stereotipo di averlo sposato per i soldi, a questo lui controbatte di averla sposata per allegria e tutti sorridiamo perché sembrerebbe quasi una motivazione superficiale. Ma, come si suol dire, oltre la superficie c’è ben altro e questo la donna lo trasmette con brio e freschezza, elementi che la Francini sa suonare bene, grazie anche al buon affiatamento in scena con Salce e con i personaggi che li attorniano a partire dalla cameriera (Giulia Weber), con cui intavola una lunga chiacchierata – ai limiti del soliloquio – raccontandoci i suoi trascorsi e come sia arrivata al coupe de foudre con l’avvocato Pietro.
Il primo a portare sullo schermo questo testo fu Luciano Salce nel 1965 insieme a Monica Vitti e Giorgio Albertazzi; oggi, idealmente, il figlio raccoglie quel filo nel tentativo di divertire e, al contempo, far emergere gli elementi più moderni di una drammaturgia che all’epoca era rivoluzionaria. La Ginzburg pur cimentandosi nel teatro, non usciva dal suo binario ed è, infatti, riuscita a far riferimento alla famiglia mantenendo la coerenza che aveva costruito negli anni. Spesso i protagonisti di Ti ho sposato per allegria si interrogano su come le madri vedano i propri figli e cosa proiettino su di loro; poi, nell’ultimo atto, la figura materna – incarnata, in questo caso, dalla madre di lui (Anita Bartolucci) – fa ancor più capolino, manifestando la propria ingombranza/importanza.
Le scene curate da Paola Comencini, pur mantenendo un unico spazio, riescono a essere funzionali nella creazione di diversi ambienti, certo centrale resta (anche nell’immaginario) il talamo. Non si può negare che nonostante la bravura degli attori e l’eleganza della messa in scena, Ti ho sposato per allegria, con lo sguardo di oggi, può sembrare per alcuni temi un po’ datato, ma per specifiche questioni come la riflessione sul rapporto madre-figlio e sull’amore resta un classico senza tempo. Ciò che più funziona e mantiene vivo il ritmo su cui il cast si inserisce bene è la partitura del dialogo scenico: «salta per dislivelli e microscopici dribbling d’attenzione, come l’acqua quando non riesce a star ferma, scende, mormora, e per ciò è viva» – come scrive Ferdinando Taviani alla prefazione dell’edizione Einaudi.
Ti ho sposato per allegria fa sorridere e pensare, ma, forse su tutto, ci fa assaporare il gusto della differenza, quanto possa essere piacevole e rivelarsi un antidoto contro la noia l’essere diversi dalla persona che si ama, dalla propria madre e da chi ci circonda.
Maria Lucia Tangorra