Non è il protagonista di Torneranno i prati di Ermanno Olmi perché non è possibile esserlo in un film del genere ma Claudio Santamaria è sicuramente il volto più noto di un cast di semi-sconosciuti. Ambientato sul finire della prima guerra mondiale, all’alba di Caporetto, Torneranno i prati (uscito al cinema il 6 novembre) è l’omaggio che Olmi rende al padre soldato in una guerra stupida, come e più delle altre. L’ennesimo atto di vigliaccheria, sottolinea il noto regista bergamasco, di un Paese che dovrebbe ancora chiedere scusa a quelle vittime innocenti di un massacro ingiustificato. Non c’è grado né divisa che tenga di fronte a un tradimento perpetuato nei confronti di giovani leve che “non sognavano di certo la morte”. In occasione dell’anteprima del film a Roma abbiamo incontrato Claudio Santamaria che ci ha raccontato la magica esperienza sul set di Ermanno Olmi e quanto importante sia stato per lui il confronto con un maestro del cinema italiano.
Come è stato per te lavorare con Ermanno Olmi?
Io credo che Ermanno Olmi sia un illuminato. Lavorare con lui per me è stato come lavorare con il Dalai Lama e non è una battuta, lo penso davvero. Reputo questa esperienza forse la più intensa di tutta la mia carriera.
Qual è stato il momento più duro sul set?
Ricordo la prima scena che avrei dovuto girare dove c’era l’incontro tra i capitani delle due divisioni. Arriviamo all’undicesimo ciak ed Ermanno si avvicina e mi dice: “Se voi recitate queste battute come se si trattasse di una strategia militare pura e semplice, noi facciamo un film sulla guerra. Noi non stiamo facendo un film sulla guerra ma sul dolore e sulle persone che sono morte a causa della guerra. E’ questo ciò che si deve percepire dalle vostre parole”.
Come vi ha guidati per raggiungere questo risultato?
Lui è stato capace di tenerci sempre su un filo di lana molto sottile. Non voleva vedere degli attori ma degli esseri umani che stanno vivendo un’esperienza molto vera e profonda, toccando delle corde molto intime. In qualche modo persone che tirassero fuori la loro parte più poetica. Credo che non sia un segreto che Ermanno ha voluto intenzionalmente che i gradi sulle divise fossero sbagliati, proprio perché la terza parte del film è un’allucinazione e non tutti gli elementi avrebbero dovuto essere realistici.
E voi come avete reagito alle sue indicazioni sul set?
L’unico modo di riuscire nell’intento come attori era essere aperti e farsi attraversare da ciò che avevamo intorno, all’ambiente e alla persona che avevamo di fronte.“Dovevamo sentire davvero che potevamo morire da un momento all’altro”, questa era un’altra delle sue indicazioni di base. “Guardarvi negli occhi deve essere la gioia più grande perché un secondo dopo potrebbe scoppiare una bomba e polverizzarvi. Perciò tutto ciò che fate ha un grande peso”, ci diceva Ermanno.
Qual è la cosa che ti ha colpito maggiormente di questa triste storia?
Mi ferisce pensare, come dice Ermanno, che i nemici non sono quelli che si affrontano sul campo di battaglia ma i responsabili della guerra. Quelli dietro il conflitto. Un po’ come mostra la scena in Uomini Contro di Francesco Rosi, dove Gian Maria Volonté si gira e indica il nemico alle sue spalle. Spesso i soldati erano mandati a morire solo per far scoprire le posizioni strategiche al nemico e non gli importava quante persone avrebbero perso la vita. Li mandavano in battaglia con le scarpe di cartone. Ecco, io credo davvero che sia stato macellato il seme di più generazioni. Il film di Ermanno vuole incoraggiare una presa di coscienza di ciò che si fa e del perché lo si fa.
Un saluto a Ermanno Olmi che è ricoverato in ospedale per degli accertamenti?
Lo saluto e gli mando tanta buona energia. Promuovere il film senza di lui è una grande responsabilità per me.
Rosa Maiuccaro