La trama di Blade Runner e la recensione. In attesa del sequel che porterà la firma di Denis Villeneuve, è tornato nelle sale del circuito The Space Cinema il 6 e il 7 maggio il cult movie del 1982 diretto da Ridley Scott.
Sarà per il gigantismo losangelino post atomico, per l’atmosfera sulfurea e rarefatta o per la fotografia crepuscolare che “bagna” la metropoli in rovina; per la mirabile contaminazione di generi (noir chandleriano e fantascienza distopica), o forse solo per quelle parole, nemmeno programmate dal copione, di Roy Batty, il replicante che voleva essere Dio degli uomini e dei robot: “…E tutti quei momenti andranno perduti, nel tempo, come lacrime nella pioggia”. Parte finale di uno dei monologhi più celebrati della storia del cinema, il commiato dell’automa ad un’umanità-relitto prostrata dalla crisi ecosistemica e svilita da una robotica amoralità, esprime il senso di inadeguatezza di fronte ad uno scenario prossimo venturo in cui le macchine si ribellano all’uomo e vogliono assumere il controllo persino della loro stessa vita artificiale. Per tutti i motivi elencati e per innumerevoli altri, Blade Runner è una pietra miliare della cinematografia di genere (fantascientifico) e non solo. Nella futuristica “città degli angeli” multietnica e violenta, il poliziotto Rick Deckard (Harrison Ford) viene richiamato in servizio per eliminare quattro di loro insorti contro il proprio creatore, Eldon Tyrell, allo scopo di ottenere più vita. Comandati da Batty (Rutger Hauer) che “ha visto cose che noi umani non possiamo neanche immaginare”, sono alla ricerca del loro demiurgo in carne e ossa contro cui sfogheranno la loro rabbia, mentre Deckard li insegue, aiutato da una replicante, Rachel (Sean Young), anch’ella nella black list dell’agente investigativo. Del film, uscito al cinema nel lontano 1982 nella versione di 113 minuti, esistono una director’s cut di 116 minuti e una final cut. Quest’ultima, al netto della rimasterizzazione digitale e della scomparsa della voce narrante fuori campo, presenta ben poche significative variazioni e l’approfondimento della sequenza del sogno di Deckard che ci fa dubitare della sua reale natura. E se fosse anche lui un organismo artificiale? Sarebbe allora un universo plasmato quasi interamente sull’onirismo delle macchine, su flussi di coscienza robotici dispiegati nel melting pot di Los Angeles, città avveniristica in cui il crogiuolo delle differenti etnie si sposa a un variegato stile architettonico fatto di strani connubi di grattacieli e palazzi antichi, cultura occidentale e cultura asiatica. Blade Runner è un capolavoro senza tempo, il cui fascino è rimasto immutato dopo ben 33 anni. Ha creato un universo ipnotico imitato e continuamente riciclabile (basti pensare al recente Autómata di Gabe Ibáñez che ripropone uno scenario simile alla megalopoli post moderna), immaginifico ed emozionale, in cui la colonna sonora avvolgente di Vangelis fa perdere ogni spettatore oltre la linea di confine che separa la città dalle colonie extra-mondo, il luogo “fuori-campo” da cui sono fuggiti Batty e gli altri “figlioli prodighi”. Ispirata dal romanzo di Philip K. Dick “Il cacciatore di androidi”, l’epopea futurista di Ridley Scott elimina la componente ironica del romanzo in cui ci si chiede, parafrasando il titolo originale, “ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. Nonostante il film di Scott non si ponga il medesimo interrogativo, ripropone l’immaginario post apocalittico delle pagine dickiane, richiamandone l’atmosfera da poliziesco notturno, il feticismo animale delle riproduzioni sintetiche, i test condotti dagli umani sugli organismi replicanti. Un film di culto per tre generazioni.
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Vincenzo Palermo