Vizio di forma: trama e recensione del film. Il ritorno di Paul Thomas Anderson tra Chandler, Altman e la psichedelia anni ‘70.
C’era una volta, in una baia lontana lontana, Gordita Beach e i suoi bizzarri abitanti: detective senza spolverino ma con sandali in cuoio, piedi lerci e camicie sgargianti, femme fatale in micro abiti, sensuali e complottiste, clan di dentisti criminali su navi dorate, suonatori “suonati” di sax con brutte frequentazioni (non proprio) alle spalle, sbirri tosti con manie compulsive, rockettari, palazzinari corrotti e imbonitori da strapazzo. Un mondo allucinato e grottesco che pullula nelle pagine di Thomas Pynchon, il cui romanzo Vizio di forma, edito nel 2009, è tanto piaciuto a Paul T. Anderson da volere a tutti i costi riprodurre le sue immagini abbacinanti e surreali in un film-manifesto omonimo della generazione hippie della West Coast. Ambientato nell’immaginaria cittadina di Gordita Beach sulle coste della California all’inizio degli anni ’70, Vizio di Forma racconta l’epopea hard-boiled di un poliziotto privato in versione fricchettona, Larry “Doc” Sportello, dipendente da marijuana e belle donne, strafatto fino al midollo e nemico/amico del temuto poliziotto della Omicidi Christian Bjornsen (Josh Brolin), inviso ai federali. E dato che tutti a Gordita Beach hanno un soprannome, anche lui è noto come “Bigfoot”, violento, vendicativo, ma sottomesso alla moglie guerrafondaia. Lui e Doc vivono nel patinato e “sballato” mondo del “trip”, del “groovy” e del “karmico a tutti i costi”, nel paese dei balocchi “tossici” sotto la cui influenza c’è Nettuno, pianeta dei “fattoni”, ma anche Urano, pianeta che porta le brutte sorprese. E infatti improvvisamente si presenta alla porta del detective la sua ex fiamma, Shasta (Katherine Waterston), latrice di cattive notizie. La donna, viso d’angelo e sorriso a cui non puoi dire di no, è implicata in una brutta vicenda di corruzione e malaffare: ha una relazione con il miliardario e proprietario terriero Mickey Wolfmann, già sposato con un’altra donna. Sua moglie e il suo amante coinvolgono Shasta in un piano diabolico per fare internare in manicomio Mickey e tagliarlo fuori dalla scena criminale di Los Angeles. Shasta chiede aiuto a Doc, e l’iconico investigatore, indeciso ancora se ha di fronte l’ennesima allucinazione da acido o se sta guardando proprio lei, la ragazza che ha amato in quel romantico giorno di pioggia, rivive l’idillio, intenzionato ad andare fino in fondo alla faccenda. Ben presto si ritrova schiacciato da “Bigfoot”, che lo scopre dove non dovrebbe essere, svenuto e sanguinante vicino a un cadavere e invischiato fino al collo in un affare malavitoso che fa capo alla Golden Fang, una misteriosa nave che nasconde pericolosi narcotrafficanti e un improbabile associazione di dentisti non proprio in regola. Quasi come fossero in prolungata apnea da stato allucinatorio, i protagonisti di Vizio di forma galleggiano, si agitano e cadono letteralmente a picco nelle situazioni più strane e paradossali possibili. L’intero, straordinario film è un gigantesco McGuffin che maschera, con la struttura del noir e della missione impossibile affidata al private eye, minacciose ombre che si allungano sull’America degli sfavillanti e disillusi seventies, portatori delle sciagure omicide dei vari Hell’s Angels e Manson, ma anche ultimo sogno psichedelico in cui rifugiarsi prima degli orrori del Vietnam e dell’affare Kennedy. Il regista, che alle spalle ha già il suo “Grande Film Americano”, Il Petroliere, racconto epico dell’anima (nera) degli States, annegati dalla brama capitalistica dell’oro nero e che nel 1997 aveva raccontato con Boogie Nights, l’ “altra Hollywood”, quella dei raincoat crowd, del porno sfavillante e dello star system allo sfacelo, fa rivivere, attraverso una galleria di personaggi sopra le righe, il passaggio dagli speranzosi anni ’60 agli allucinogeni ’70 in un’orgia stralunata che omaggia Chandler, Robert Altman e l’età d’oro del noir. Il “delirio a Las Vegas” è ricalcato sulle atmosfere coeniane de Il Grande Lebowski, si colora del pulp tarantiniano e, come ha dichiarato lo stesso regista, guarda da vicino a classici intramontabili come Un Bacio e una pistola di Robert Aldrich o Il Grande Sonno di Howard Hawks. Ma non si tratta di una sterile imitazione di vecchie derive, anzi, Anderson gioca coi modelli per operare personalissime deviazioni dalla strada maestra, grazie al suo spirito da libero outsider di provincia, da cantore di amarezze e disillusioni tutte americane. Interpretando il film col titolo italiano Vizio di forma, che in originale sarebbe invece “vizio intrinseco”, potremmo dire che il regista ha messo in scena il surreale teatro degli orrori, sia pure annegato in spirali lisergiche, che da anni ha “viziato” le forme politiche, sociali e religiose del continente a stelle e strisce. Dalla serialità degli orchi coi capelli lunghi devoti a satana alle guerre incomprensibili che hanno avuto come solo risultato lo sterminio e l’alterazione perenne degli equilibri (politici e umani) mondiali, “il cuore di tenebra” della Nazione è continuamente afflitto dal “manque”, l’assenza di sentimento, di empatia verso l’altro e di comunicazione affettiva. Nonostante il film parli di tutta questa mancanza, non lo fa per sottrazione, ma per accumulo di materiale fracassone, strabordante, eccessivo. E compensa la “perdita” della nazione con momenti di puro romanticismo, accarezzati dalle note di Neil Young che con Journey through the past ci fa dubitare del lavoro di corrosione operato dal tempo, che può allontanare fisicamente o avvicinare idealmente. In fin dei conti il cineasta ci fa percepire il senso della sconfitta di un paese e dei suoi abitanti, già dalle prime sequenze in cui facciamo conoscenza di Doc, un esuberante e dinoccolato Joaquin Phoenix alle prese con la visione (allucinazione?) di Shasta. Ma ancora di più ascoltando Vitamin C dei Can che, quasi come un mantra karmico, ripetono ossessivi: “stai perdendo, stai perdendo, ti stai perdendo, stai perdendo”.
Vincenzo Palermo