Bada a come parli

ARCIMBOLDO, Ritratto di Rodolfo II d'Asburgo
ARCIMBOLDO, Ritratto di Rodolfo II d’Asburgo

«Oddio, si è spezzato il tappo della bottiglia di spumante, adesso come faccio ad aprirla?», dice una signora. Qualcuno le offre aiuto: «Faccio io, qual è il problema». Immaginate se lei replicasse «che domanda superflua!» La parola ‘problema’ può creare reazioni quando, per inserirci in una conversazione di gruppo, diciamo il problema è un altro, che a farci caso significa: «state discutendo di una questione sbagliata, vi spiego io di che cosa dovete parlare». Spesso bisogna sperare che nessuno faccia caso al senso nascosto nelle parole.

    A volte, far caso a certi modi di dire consente di rimodulare i rapporti interpersonali. Succede quando incontrate chi si serve di frasi abusate, come senza se e senza ma, oppure mettere paletti o peggio ancora tutto questo per dire cosa? che prelude a sentirlo ripetere ciò che ha già detto. Mollatelo nel momento in cui esclamerà punto. La parola ‘punto’ non garantisce che abbia finito di parlare, ma chiarisce che avete a che fare con un tipo che non rispetta le opinioni altrui.

   Imparati negli anni di gioventù, e più ancora nell’età adulta, gli intercalari sembrano conficcarsi in ogni cellula cerebrale, ogni nostro pensiero se li trascina inevitabilmente appresso. Diventano un fenomeno psichico abitudinario da cui con difficoltà ci libereremo se non ne prendiamo consapevolezza. Direi che sono subdoli perché arrivano alle labbra prima del pensiero. Chiedo scusa, direi che è superfluo, lo so, ma l’ho infilato volutamente qui tra le mie parole per non dire a mio parere, con cui avrei dichiarato che sono proprio io a pensare ciò che sto dicendo… Comunque non sarò mai tanto arrogante da scrivere sia chiaro oppure badate bene, cioè «ehi voi, non capirete niente se continuerete a leggere sbadatamente».

   Badare a come parliamo fa male alla salute, procura un ‘tormentum auris’, un supplizio all’orecchio analogo al tic facciale che i neurologi chiamano ‘tormentum oris’. Ma individuare gli intercalari linguistici può anche essere divertente, come quando tentiamo di riconoscere vegetali, bestioline e oggetti vari nelle stravaganti figure cinquecentesche di Arcimboldo. I tic del linguaggio sono tanti, servono a prendere tempo se non ci vengono pronte le parole, insomma arrivano in nostro aiuto quando siamo in cerca di un termine appropriato. A patto, si capisce, che li usiamo con consapevolezza. Ed eccolo arrivato, il tremendo si capisce, con cui insinuo: sto scrivendo in modo semplice per non crearvi difficoltà di comprensione. Certamente è meglio ‘si capisce’ piuttosto che non so se mi sono spiegato, che fa sembrare che io vi chieda «non lo so, me lo fate sapere voi?». Mai però mi abbasserò a scrivere «non sono riuscito a spiegarmi bene», sarebbe un suicidio verbale!

  Certi intercalari si caricano di sottintesi nei dialetti meridionali. A Napoli puoi sentirti chiedere: «Ma perché l’hai fatto, dico io?» Quel dico io non serve ovviamente a farti sapere chi è che ha parlato, ma è un rimprovero. Invece, è un consenso emotivo se, mentre parli, qualcuno ti interrompe dicendo è ’o vero? Se poi sei tu a chiedergli qualcosa, può capitare che ti risponda è scemo, in terza persona, guardandosi intorno anche se non c’è nessuno. Dire ‘è scemo’ non è una offesa ma un “no” deciso, espresso in forma teatrale per richiamare l’attenzione di un pubblico immaginario. Per i napoletani, il pubblico immaginario è sempre presente. Un bambino corre e cade? La mamma subito grida ’o ssapevo! esagerando con le esse, proprio come se stesse su un palcoscenico. Lei sapeva che il figlio sarebbe caduto? Macché. Allora che cosa sapeva? Sapeva che avrebbe dovuto impedirgli di correre, però non l’ha fatto, e se ne scusa ad alta voce con gli spettatori immaginari. Poi, pur preoccupata, si affretta a tranquillizzare il bambino, sorridendo al… pubblico: è cosa ’e niente!

  Dal partenopeo “è cosa ’e niente” agli ossessivi “…niente” e “che ne so dei ragazzi d’oggi il passo è breve, si arriva a esilaranti contraddizioni di senso. Una madre alla figlia: «Come mai la tua amica non ti telefona da ieri?». «Mal di stomaco, pancia …che ne so». «Lo sai o non lo sai? – fa la madre – ma che cosa avete mangiato e bevuto?». «…niente, patatine, qualche spritz …niente …che ne so».

Elio Galasso

 

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