Un segreto sembra unire queste tre sculture, separate da tempi e luoghi. Due ritraggono esponenti di famiglie romane illustri, lo dice il marmo pregiato di cui son fatte. Nella terza un ignoto scultore sannita raffigurò un mercante, utilizzando la comune pietra calcarea che ne segna la distanza ideologica dai romani conquistatori. Un togato, la cosiddetta Statua Barberini (Fig. 1 – Roma, Palazzo dei Conservatori, sec. I a.C.) mostra a chi lo guarda due ritratti di antenati. Il Trasportatore di Benevento (Fig. 2 – Benevento Museo del Sannio, età augustea) sovrasta l’attrezzo del suo lavoro in azione, un carro a quattro ruote trainato da due cavalli al trotto. Una Matrona romana romana (Fig. 3 – Roma, Musei Capitolini, 90-100 d.C.) esibisce una favolosa acconciatura appena completata. A chi si presentavano così, bloccati in momenti di vita vissuta, direi fotografati? Indubbiamente a chi li aveva conosciuti in vita e doveva poi così continuare a tenerli in mente. Queste tre sculture trasmettono messaggi molto specifici, finora mai presi in considerazione. Contengono aneliti di eternità. C’è in esse più di quel che appare a prima vista, c’è un oltre, non si tratta soltanto di opere d’arte. Rappresentati in momenti di vita, i tre personaggi negano la propria morte, mascherandola.
Racconta Polibio che a Roma le principali famiglie conservavano in armadi di legno i calchi in cera dei volti degli antenati defunti, legandoli insieme a formare un ‘albero genealogico’. Ad ogni nuovo lutto si ricavava un calco dal viso del defunto, e un familiare lo indossava fingendo di essere lui, ancora vivo. A volte venivano chiamati a farlo anche attori di scuole drammatiche dove, scrive Diodoro, era un esercizio quotidiano imitare le persone più note della città, per poterle poi rappresentare come viventi ai loro funerali. L’immagine però non bastava. Per restituire al defunto una corporeità concreta, secondo Sallustio, era necessaria la messa in scena delle attività da lui svolte, specialmente del suo modo di godersi la vita. Un parente o un attore si assumeva quindi il compito di interpretare il defunto indossandone il calco, e dialogava con familiari ed amici. Da quel tipo di calco, cui veniva modificata la bocca per incrementare la voce, nacque la maschera, detta persona dal verbo personare cioè risuonare forte. Quell’antichissimo rituale scenico di ‘incarnazione’ è pervenuto fino al Medioevo e sopravvive in tanti riti odierni fondati sull’opposizione presenza-assenza. Per esempio nei carnevali, dove la maschera copre l’anno finito schiudendo a nuova vita la primavera.
Dal punto di vista antropologico, nella scultura romana, e nei tre rilievi qui analizzati, la riproduzione fedele dei tratti fisionomici, con l’accurata attenzione ai particolari realistici, persino ai difetti, mette in secondo piano la ricerca della bellezza e della perfezione delle forme. Tuttavia contiene tracce di morte. Perciò la cultura occidentale ha poi orientato la produzione figurativa verso la qualità estetica dell’immagine più che verso la sostanza dei contenuti. Sarebbe davvero inquietante oggi percepire con l’occhio antico uno scenario di maschere come quello a cui rimanda spesso la scultura romana. Anche per questo, ciò che noi ne percepiamo è soprattutto l’essenza artistica, che finisce per rendere atemporali queste opere, affidandole ad una eternità ‘altra’, quella contro cui si scaglia l’iconoclastia, ignara che in fin dei conti un’opera d’arte è un mezzo che ha già svolto il suo ruolo nella evoluzione culturale, la trasmissione di una immagine che rimarrà eterna.
ELIO GALASSO