Blog di Livia Paola Di Chiara
“Si presentò in galleria per sottopormi i suoi primi lavori nell’ottobre del 1969, io avevo trent’anni, lui ventidue e mezzo. Non l’avevo mai conosciuto, eppure lo riconobbi: i suoi baffetti eclettici erano inconfondibili. […] Da quel giorno diventammo inseparabili.”
In una nota pubblicazione, ben lontana dalle scelte iconoclaste dell’artista che stiamo per raccontare, Fabio Sargentini descrive l’incontro con Gino De Dominicis alla galleria Attico, trattando la sua apparizione come il movente di un cambiamento radicale che stava per avvenire nell’arte.
Il gallerista, rimarcando le sue intuizioni per le scelte artistiche e sceniche di quel periodo, racconta come nacque il “sodalizio onnipotente” con l’artista che creò uno spostamento del baricentro dell’avanguardia romana alla fine degli anni Sessanta. Nel descrivere la sfrontatezza del giovane anconetano, Sargentini narra altresì l’aria di diffidenza di un Kounellis competitore che non ci stava ad accostare la sua ricerca alla linea più concettuale di Mozzarella in Carrozza e scioglieva i legami con il garage di via Beccaria.
In un clima fatto di scelte senza ritorno, Sargentini instaura un legame inscindibile che lo porta ad immedesimarsi nell’artista. Nelle lunghe passeggiate a braccetto con Gino, Fabio recepisce visioni beffarde e cerebrali fatte di un’inedita ed emozionante immaterialità; così, calpestando in tondo i sanpietrini di piazza del Popolo, si teorizzano e prendono forma gli “oggetti invisibili” capaci di suscitare riflessioni sulla corporeità attraverso la sola evocazione.
Sotto la luce benevola di questo legame apparentemente indissolubile, ma che si esaurirà dopo soli tre anni di attività, erompe un’arte del corpo e della mente, votata più all’essere che all’apparire, che ci fa scoprire un artista motivato nel non lasciare di sé alcuna traccia, limitando addirittura la diffusione sia della sua immagine che di tutto ciò che ruota intorno alla sua “creazione”, convinto che l’aleatorietà sia diretta equivalente dell’eternità.
Mentre Sargentini lo ascolta, s’immedesima e lo asseconda, c’è un amico che coglie più di altri il senso dell’arte di De Dominicis attraverso l’obiettivo. Claudio Abate, spettatore e attore, imperterrito recide dal fluire del tempo gli attimi più espressivi di un momento, di un’idea, di un’epoca. Una fotografia su tutte, quella scattata alla Biennale di Venezia del 1972.
Lo scorcio di Abate, vertiginosamente verticale, ritrae un Giorgio De Chirico in abito scuro, attempato, perplesso e quasi incerto nei pensieri più che nel passo. Nello sguardo sembra di scorgere quel “maestro” che scendendo la scalinata di Trinità dei Monti, riprendeva un gruppo di studenti di via di Ripetta rei di averlo semplicemente chiamato per nome senza la più specifica qualifica.
Dentro quel piglio c’è il contegno di chi sa di avere a che fare con una forza comunicativa nuova che riesce a riconoscere, ma non giunge a focalizzare. L’uscita dall’inquadratura della macchina fotografica sembra evocare una più storica dipartita. De Chirico è testimone, anche se non ne afferra appieno il senso, della gloria di un venticinquenne spavaldo e insolente, con giacchetta bianca e baffetto di surrealista memoria, che esibisce l’aria di sfida di una personalità mordace e che sta spingendo talmente tanto sul versante della provocazione, da incrinare anche il rapporto con l’amico Fabio Sargentini.
In quell’occasione De Dominicis aveva esposto la Seconda soluzione d’immortalità (L’universo è immobile), una delle opere più discusse della storia della kermesse veneziana che vedeva il signor Paolo Rosa, affetto dalla sindrome di Down, seduto e circondato da cubo invisibile, Palla di gomma (caduta da due metri), nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo, e Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale.
Difatti l’installazione suscitò dei durissimi commenti sui quotidiani. Da Montale a Pasolini la potenza dell’opera creò un tornado mediatico che mise sotto accusa l’artista, fece chiudere definitivamente la sala e scalfì l’amicizia col gallerista, che avendo ricevuto solo una superficiale anticipazione telefonica da De Dominicis, non condivise l’azione, anche se sostenne l’amico fino all’assoluzione, da parte della Procura di Venezia, nell’aprile del 1973.
Abate con uno scatto descriveva un momento, dava corpo ad una realtà e sviluppava la migliore analisi di un’epoca, delineando il cambio di passo generazionale e intellettuale. Fermando un istante lo rendeva perfino eterno, traducendo le emozioni dei personaggi in immagini e facendo quasi trasparire dal volto di De Dominicis la malinconia che sarebbe subentrata poi.
Sargentini nelle sue affermazioni racconta che in seguito al raggiungimento delle vette della provocazione, De Dominicis fu sempre tormentato dallo spettro di quella biennale che certo aveva sconvolto anche lui.
Nella sua lunga somatizzazione dell’accaduto si lascia ancora oggi attraversare da una domanda postagli dallo psicanalista Paolo Perrotti, e alla quale non riesce a rispondere: “In nome della libertà dell’arte, se un artista impazzisce, chi lo decide?”
Forse la stessa domanda possiamo porcela anche noi, senza dover per forza trovare una risposta.
L’idea è quella d’innescare, piuttosto, dei meccanismi di riflessione per far sì che la curiosità di approfondire certe dinamiche ci porti ad indagare sempre più a fondo lo studio di una ricerca artistica, rivelando magari, aspetti piacevolmente inattesi, al di là delle definizioni semplicistiche di stravaganza, eccesso, provocazione, incomprensione cui spesso sono soggetti gli artisti più ermetici.
Info aggiuntive
La citazione di Fabio Sargentini e i riferimenti all’amicizia con l’artista sono tratti dal catalogo della retrospettiva di Gino De Dominicis svoltasi al Museo MAXXI, a Roma nel 2010.
Gino De Dominicis, l’Immortale – a cura di Achille Bonito Oliva. Electa, 2010.
La foto storica di Claudio Abate è presente nell’archivio: www.claudioabate.com/it/storico.html