Tramano da più di duemila anni i senatori, mai ‘aboliti’. Allora con tavolette cerate, oggi con tablet elettronici, si occupano di messaggi segreti. In una seduta dell’anno 63 avanti Cristo arrivò nel Senato di Roma (Fig. 1) una tavoletta chiusa, all’interno poche parole graffite sullo strato di cera, insomma un messaggio che passò di mano in mano fino al destinatario. Se ne accorse Marco Porcio Catone (Fig. 2), Porcius in latino, e non ‘Porzio’ come qualcuno erroneamente scrive, perché la lettera zeta esisteva soltanto nell’alfabeto greco. Sospettando la solita bega politica, anzi qualcosa di più pericoloso, puntò il dito sul destinatario, nientemeno che Giulio Cesare, suo avversario e aspirante ‘dittatore’, e gli chiese di leggerlo ad alta voce.
Cesare provò a non farlo, gli passò la tavoletta con qualche cenno d’intesa. Catone gongolante la prese, la guardò e… gliela tirò in faccia. Gli era bastata una rapida occhiata, si trattava di un messaggio erotico mandato da sua sorella Servilia (Fig. 3) proprio a Giulio Cesare. Nel parapiglia, qualcuno raccattò il tablet cerato e quel gossip antico è arrivato fino a noi. Ma le “frasi audacissime” dell’affascinante Servilia a cui accenna Svetonio son tutte da immaginare.
Catone ossessionato dal trionfo politico di Cesare si uccise a Utica nel 46 a.C. Da allora fu detto Catone Uticense. Aveva però fatto in tempo a inculcare idee di libertà violenta nella mente del figlio di sua sorella Servilia, il ben noto Bruto che con Cassio e altri partecipò all’assassinio di Cesare.
I stigatore di assassini e suicida, Catone lo ritroviamo nella Divina Commedia a guardia del Purgatorio, salvato – si dice – dal suo amore per la libertà. Secondo alcuni, Dante non manca comunque di fargli fare una figuraccia. Accadde che Quinto Ortensio Ortalo, grande oratore e facoltoso uomo politico, andò da Marco Porcio Catone a chiedergli in prestito la figlia Porcia: aveva la moglie sterile e a quell’epoca se uno non riusciva ad aver figli poteva chiedere in prestito la figlia o la moglie di un amico compiacente, farci il figlio desiderato e poi restituirla. Catone gliela negò, per non sottrarla al genero Bibulo con cui Porcia era sposata. Così, Ortensio gli chiese di prestargli addirittura sua moglie, Marcia (Fig. 4), figlia di Lucio Marcio Filippo e dunque Marcia in latino, non ‘Marzia’ come qualcuno erroneamente scrive, Dante incluso. Catone a questa nuova richiesta lo accontentò, perché sua moglie Marcia, già incinta, avrebbe sicuramente dato l’erede desiderato all’amico Ortensio. Un favore tra amici, per dirla in breve.
Marcia nella Divina Commedia sembra proposta come simbolo di fedeltà coniugale, ma c’è chi la vedrebbe più adatta al girone dei lussuriosi nell’Inferno, interpretando maliziosamente le parole di Catone nei versi di Dante: Marzïa piacque tanto a li occhi miei / mentre ch’io fui di là, diss’elli allora, / che quante grazie da me volse, fei. / Or che di là dal mal fiume dimora, / più muover non mi può… (Fig. 5). Vale a dire: quand’ero vivo, Marcia mi piaceva così tanto che ho sempre fatto tutto quello che lei voleva, ho sempre chiuso un occhio per i suoi tradimenti… Ma adesso che sta di là non mi lascio più prendere in giro, lei non può sempre farmi fare quello che le pare.
Che sia stata quindi Marcia a volersene andare con Ortensio, uomo brillante sebbene non giovanissimo? E poi, come mai la signora non tornò a casa subito dopo aver partorito, anzi restò con Ortensio per dargli altri figli? Scrive infatti Plutarco che tornò da suo marito Catone solo quando Ortensio morì: “Riprendimi con te, non considerarmi solo un ‘ventre’, un utero in affitto”. Un caso di amore infinito, di fedeltà coniugale assoluta, all’antica? O c’è qualcosa di attuale in questa storia?
ELIO GALASSO