Se Lucio Calpurnio Pisone possedeva una villa sontuosa sul lungomare di Ercolano antica, non era solo perchè aveva dato sua figlia Calpurnia in moglie nientemeno che a Giulio Cesare ed era diventato console. Ricco di origine, più ancora lo diventò quando, nel 57 a.C., fu proconsole in Macedonia. Cicerone lo odiava per avere amministrato malissimo quella regione a nord della Grecia, da dove fra l’altro s’era portato via parecchi capolavori di scultura, e quelli che non era riuscito a prendersi li aveva fatti replicare da ottimi scultori del luogo. A pensarci, li aveva sottratti all’oblio del tempo. Tra quelle repliche era una affascinante Testa in bronzo, alta una trentina di centimetri, che ripeteva un originale greco di almeno trecento anni prima. L’avesse portata nella sua residenza di Roma, l’opera sarebbe andata perduta, e perduta comunque rimase per millesettecento anni perchè, poco più di un secolo dopo che era arrivata ad Ercolano, la grande eruzione del Vesuvio del 79 d.C. seppellì la Villa estiva dei Pisoni. Quella villa era stata un centro di diffusione del più sensuale pensiero epicureo, ricca dei papiri della biblioteca del filosofo Filodemo di Gadara, tutti carbonizzati e tuttora in corso di recupero insieme alle opere d’arte. Ercolano fu ritrovata nel Settecento, cominciarono gli scavi e molte sculture vennero trasferite a Napoli. Nel primo Ottocento, proprio la Testa di bronzo fatta eseguire da Pisone fu regalata da Re Ferdinando II di Borbone al Cardinale Carlo Maria dei Marchesi Pedicini di Benevento, che amò esibirla nel suo palazzo ai colti viaggiatori del Grand Tour richiamati in città dall’Arco di Traiano. Pochi decenni più tardi, nel dicembre 1867, in quello stesso palazzo l’archeologo germanico Heydemann le diede finalmente un nome – Il Vincitore Olimpionico di Benevento – inducendo l’antiquario francese Jules Sambon ad andarla a comprare per rivenderla a Napoleone III. A sua volta, l’Imperatore dei Francesi la donò al Louvre. Così fu il Louvre a confermare quel nome alla scultura e a dedicare ad essa negli Anni Cinquanta del Novecento la prestigiosa copertina del suo “Catalogo Generale”. Dopo averla imposta all’attenzione internazionale, il Louvre ne donò una copia in bronzo al Museo del Sannio di Benevento.
Perciò, non potevo che suggerire proprio quell’Olimpionico quando, nel 1988, essendo alla Direzione di quell’Istituto, mi fu richiesto di indicare una scultura che rappresentasse l’Italia nella mostra “Lo Sport nell’Antichità” da allestire a Seul in Corea in occasione della XXIV edizione dei Giochi Olimpici. Ma Parigi tergiversò, tanto da costringere il nostro Ministero per i Beni Culturali a ripiegare su un Rilievo gladiatorio romano del Museo del Sannio. Anche se io stesso ne avevo fatto conoscere l’elevata qualità d’arte, non condivisi la scelta di inviare alle Olimpiadi di Seul un’opera che non raffigura un atleta in nobile gara sportiva ma un gladiatore in armi, pronto a uccidere o a morire. Solo che ad avviarsi alla morte fu invece la ‘prima identità’ del Vincitore Olimpionico di Benevento. Una sua ‘seconda identità’ proposta pochi anni orsono fu puntualmente segnalata da “Archeo”, noto periodico italiano di divulgazione archeologica, che sulla copertina del fascicolo 8 del 2010 ne pubblicò la foto col titolo Atleta di Ercolano. Per ricordare la prima ubicazione dell’opera portata dalla Macedonia, si è arrivati a mettere in disparte il capitolo beneventano che nel 1867 aveva consentito ad essa di avere per la prima volta l’identificazione e un nome. Ulteriori ‘identità’ potrebbero ora affacciarsi all’orizzonte, per esempio Atleta macedone oppure Vincitore di Olimpia o, peggio, Campione Olimpionico del Louvre, riducendo la questione ad un caso psicanalitico di identità plurime! Forse è per questo che il ritratto del giovane atleta sembra ormai tristemente rassegnato ai mutamenti d’umore di chi si occupa di lui….
Aveva trionfato ad Olimpia nel IV secolo a.C. quell’atleta sconosciuto, nei massimi Giochi della Grecia antica, sacri a Zeus, forse nel pancrazio, la gara di lotta libera più entusiasmante fra tutte, o forse nella corsa perché il suo volto allungato, assorto nell’armonia assoluta tra valori della mente ed energia fisica, presuppone un corpo agile, leggero. Niente medaglia d’oro, a quei tempi, ma soltanto la taenia, un serto d’ulivo selvatico posato sul capo e il giro d’onore nello stadio al suono delle trombe tra gli applausi degli spettatori. E però, per lui, un premio ulteriore, raramente conferito ai vincitori olimpionici: il suo ritratto affidato ad un grande scultore, anch’egli greco, perché alle Olimpiadi i ‘barbari’, cioè gli stranieri, non erano ammessi, e il vincitore veniva assimilato agli dei dell’Olimpo ellenico.
Gli studi recenti di questa replica pisoniana di un antico ritratto perduto riconducono ad un artista suggestionato dai modi stilistici di un Maestro che sapeva rinunciare ai classici, impassibili ‘tipi ideali’ (il poeta vecchio e cieco, il filosofo barbuto, l’eroe impavido con la chioma al vento), per cominciare piuttosto a penetrare l’emotività di ciascun individuo rappresentato. Di qui la fisionomia asimmetrica del giovane Vincitore olimpionico di Benevento, il preciso disegno delle labbra avvivate da lamine di sottilissimo bronzo rosa, i riccioli affollati e curati che lasciano appena intravedere il serto d’ulivo, l’atteggiamento dolcemente malinconico nel reclinare il capo come per invitare l’osservatore a condividere la serenità conseguita dopo l’impegno atletico, e i suoi occhi profondi, vivi ancor oggi che hanno perduto le originarie iridi di vetro colorato inserite nell’alabastro bianco. Quel Maestro, il primo che duemilaquattrocento anni fa si sia avventurato nei segreti dell’animo umano, era Lisippo, ritrattista sommo di Alessandro Magno.
Elio Galasso