La strana voglia di sparire

Mattia Preti -   Aristocratici al clavicembalo  in una dimora napoletana del Seicento - Collezione privata
Mattia Preti – Aristocratici al clavicembalo in una dimora napoletana del Seicento – Collezione privata

“Questo è il nostro addio, vado a vivere come un babbeo” disse a un’amica Philip Roth, lo scrittore statunitense famoso per il romanzo Lamento di Portnoy. Cosa stia facendo da babbeo non si sa, ma ci avrà provato gusto, dato che son tre anni che è sparito. Anche la scrittrice Isabelle Eberhardt volle ‘essere se stessa’, come si suol dire, e sparì tra i misteri del mondo islamico di fine Ottocento per vivere sulla propria pelle i rischi e le emozioni da trasferire nei suoi racconti. Dal Nord Africa stuzzicava la curiosità dei lettori facendo sapere che vestiva da maschio, beveva acquavite, fumava hashish e andava a letto con chi le piaceva. Mica male, se fosse stato un semplice sfizio. Solo che Isabelle faceva sul serio. Una volta i legionari francesi d’Algeria si accorsero che una ragazza in abbigliamento coloniale marciava in mezzo a loro sotto il sole del deserto. Era lei. Non c’è da stupirsi che sia annegata, a ventisette anni, in un torrentello del Sahara!

Demonietto che s’impossessa di uno scrittore - Caricatura inglese del Settecento - Collezione privata
Demonietto che s’impossessa di uno scrittore – Caricatura inglese del Settecento – Collezione privata

Nel pieno del successo sparì Greta Garbo. La diva delle dive abbandonò i suoi ammiratori per diventare corpo senza voce. A Stoccolma, a New York o in Italia andava a fare la spesa ogni mattina sempre alla stessa ora, nascosta dietro… foulard vistosi e occhialoni neri. A Taormina c’è ancora chi ricorda come una immagine da cinema muto, che si indispettiva se nessuno la notava. Al contrario di lei, Mina si è trasformata in voce senza corpo, salvo poi a lasciarsi fotografare da ogni lato quando va da qualche parte, vestita in ‘total black’ da lutto stretto.

  A molti piace guardare in televisione i ‘famosi’ che scompaiono su isole remote per qualche settimana. Se invece uno decide di sparire per sempre e se ne va dove lo porta il cuore non interessa a nessuno. Sono fatti suoi, pensa la gente. I medici attribuiscono le sparizioni volontarie a patologie mentali. Secondo loro, sarebbe stato affetto da ansia il grande filosofo Jean-Jacques Rousseau, che sparì in Francia tre secoli fa. Per me invece anche la sua fu una meditata scelta di vita. Ossessionato dai troppi condizionamenti della quotidianità, aveva scritto: “Non mi ridurrò ad esistere, voglio vivere, sottraendomi al mondo potrò ritrovare audacia di pensiero”. E scansando le persone che fino ad allora aveva frequentato, usciva di casa soltanto per passeggiare su sentieri rigorosamente fuori mano.

 A volte è una malizia sopraffina a indurre l’idea di diventare invisibile. A Napoli, più di un secolo prima di Rousseau, un poeta ingegnosissimo pensò di darsi addirittura per morto, per fare quello che da vivo non poteva. Fu Giulio Cesare Cortese a scegliere questo inquietante modo di sparire, il poeta seicentesco che in lingua napoletana aveva cantato le vajasse, le servette di cui ho parlato la volta scorsa in questa Rubrica Grandangolo. Per farlo chiese la complicità del suo amico poeta Giambattista Basile, dicendogli con viso triste “tanto ormai co lo tiempo e co la sciorta ho già iocato li meglio anne de la vita”.

  Basile stette al gioco. Nel 1627 si presentò vestito a lutto in una piazza affollata e annunciò la morte improvvisa del Cortese. Nel vibrante elogio funebre ricordò il poemetto La vajasseide col quale il ‘caro estinto’ aveva dimostrato che la vita della povera plebe napoletana valeva molto più di quella futile dei ricchi nobili. Il popolo, costernato, espose teli neri lungo i vicoli, accese ceri davanti ai bassi e pianse. Giulio Cesare Cortese ne fu così commosso che, travestitosi per rendersi irriconoscibile, prese parte in lacrime per le vie di Napoli a tutte le cerimonie del proprio funerale!

  Da allora, come ispirato dal demonietto che gli incisori d’epoca si divertivano a raffigurare alle spalle degli scrittori satirici, cominciò a inondare la città di libelli antigovernativi, firmandoli con i nomi dei poetastri che lo avevano sempre invidiato e definito ‘brutto nano’, come peraltro egli era. Riconoscendo le sue idee e il suo stile, loro si difendevano dal suo maligno fantasma con riti scaramantici. Per questo evitarono perfino di tramandarcene un ritratto. La tiorba a taccone è il titolo dell’ultima opera attribuita a Giulio Cesare Cortese. Lui la firmò con l’ironico pseudonimo “Felippo Sgruttendio de Scafato” nel 1646, diciannove anni dopo che era andato in giro per le vie di Napoli a piangere la sua morte e a pregare per la sua…. anima!

Elio Galasso

 

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