Il suo caso ha fatto il giro del mondo, l’organizzazione “Italians for Darfur” ha raccolto più di cinquemila firme per la sua liberazione, Amnesty International ha lanciato un appello per la sua liberazione e lo stesso Papa Francesco ha chiesto con forza che alla giovane sudanese venga risparmiata la vita. Meryam Yahya İbrahim İshak, 27 anni, è stata condannata alla pena di cento frustate per il reato di adulterio e all’impiccagione per apostasia. Le è stato proposto di abiurare per riavere la libertà, ma lei ha rifiutato. E’ incinta di otto mesi e ha già un bambino di un anno e mezzo. La sua “colpa” sarebbe quella di dichiararsi cristiana e aver sposato un correligionario pur essendo figlia di un musulmano; secondo la religione islamica, infatti, i figli di padre musulmano devono essere cresciuti secondo i dettami dell’Islam e una donna musulmana può sposare solo un uomo della stessa fede (mentre un musulmano può sposare una donna cristiana o ebrea). Il tempo sta per scadere. Se Meryam non si converte, se gli appelli internazionali non avranno effetto e se il riesame del caso da parte del tribunale di Khartum darà esito negativo, si aspetterà il parto per poi eseguire le condanne. In Sudan nel settembre 1983 il presidente Jaafar al-Numyri annunciò ufficialmente l’attuazione della Shari’a come codice normativo del Paese. Gli alcolici vennero gettati nel Nilo e la legge si inasprì con gli anni attraverso una applicazione sempre più severa. La Costituzione sudanese del 2005 sancisce la libertà religiosa ma, di fatto, il divario tra legge e consuetudine non si è mai sanato davvero e le spinte verso la rigida adesione alla Shari’a sono sempre più forti. Finora a nulla sono servite le parole di Meryam, che ha ribadito di essere cristiana e, dopo l’abbandono del padre, di essere stata cresciuta come tale dalla madre, una etiope cristiana ortodossa. Una donna sta per morire a causa della sua religione. Le autorità del Sudan hanno fatto sapere che non sarà applicata la pena di morte, ma le notizie sono frammentarie e contraddittorie, al punto che è necessario mantenere alta l’attenzione. Quante volte ancora ci troveremo davanti casi simili? Intanto il mondo attende col fiato sospeso la sorte di questa giovane madre che non chiede altro se non la libertà e la salvezza, suoi diritti e la sospensione di una condanna ingiusta, che viola la possibilità, imprescindibile, di pregare e amare senza vincolo alcuno. Non si chiede altro se non l’applicazione della Costituzione del 2005. La comunità internazionale si sta mobilitando in difesa di Meryam, ricordando che in Sudan, da quando è entrata in vigore la Shari’a, nessuno è stato giustiziato per apostasia e molti accusati si sono, invece, convertiti all’Islam o ribadito la loro fede in questa religione. Per il momento, quindi, non ci sono certezze, sono la speranza e gli accorati appelli. Spero di poter comunicare presto la notizia della liberazione di questa giovane donna che, se dovesse recuperare la libertà, difficilmente potrà dimenticare ciò che ha subito. Sosteniamo Meryam, continuiamo a chiedere la sua scarcerazione a gran voce, senza scoraggiarci. Sperando davvero che ciò avvenga il prima possibile.
Francesca Rossi