L’articolo di oggi è diverso dagli altri nella struttura, poiché ho deciso di accostare le ultime notizie di due casi che hanno indignato la comunità internazionale, quello di Meryam, accusata di adulterio e apostasia in Sudan e l’altro, altrettanto tragico e di difficile risoluzione, che ha per protagoniste le studentesse nigeriane rapite dal gruppo estremista Boko Haram. In entrambe le situazioni, come è facile notare, le donne sono al centro di uno scontro feroce fra tradizione e modernità, dogmi e diritti, vittime di repressione ed emblemi di emancipazione da tenere sotto controllo, anche con la forza se necessario. Il primo caso, di cui ho parlato nel precedente articolo, è quello della giovane Meryam, padre musulmano e madre cristiana, che ha sposato un correligionario e, accusata di apostasia, ha rifiutato di convertirsi all’Islam, dichiarando di essere stata allevata nella religione materna. Pochi giorni fa la donna ha partorito in carcere una bambina. I suoi parenti lamentano un trattamento inadeguato nei suoi confronti e non solo. La pena, infatti, è stata sospesa per ben due anni durante i quali Meryam dovrà rimanere in carcere e verrà sottoposta a un nuovo processo. A dare la notizia del parto è stata l’associazione “Italians for Darfur”, che garantisce la mobilitazione internazionale attorno alla mamma sudanese e un impegno costanti fino alla sua liberazione.
Lo scorso 14 aprile più di duecento studentesse sono state rapite in una scuola situata nel Nord della Nigeria. Le ragazze sono diventate da subito, per il gruppo estremista Boko Haram, simboli di corruzione e merce di scambio. Infatti il leader dell’organizzazione, Abubakar Shekau, attraverso dei video, ha messo in risalto la loro condizione di ostaggi e schiave convertitesi all’Islam, di giovani donne che si sarebbero sottomesse ai dettami religiosi e, proprio per questo, avrebbero rinunciato a proseguire gli studi. Inoltre le vite di queste giovanissime sono legate a filo doppio con quelle dei membri di Boko Haram arrestati dalle autorità nigeriane; se verranno liberati le ragazze potranno riabbracciare le loro famiglie, in caso contrario verranno vendute come schiave.
Come accaduto per Meryam, anche in questo caso l’opinione pubblica si è stretta attorno alle sorti di queste bambine tra i nove e i dodici anni. A quanto pare sarebbe anche stato individuato il luogo in cui sono costrette a vivere le prigioniere, ma sembra che per ora non siano previste azioni militari per liberarle. Negli ultimi giorni circa cinquantatre tra di loro sono riuscite a scappare; questa, almeno, la versione ufficiale. Si crede, infatti, che alcune siano state rilasciate a causa delle loro condizioni di salute precarie, ma non vi sono certezze in merito. Di fatto molte altre giovanissime studentesse sono ancora nelle mani di questa pericolosa organizzazione terroristica che mira a instaurare uno stato islamico in Nigeria e nessuno sa in che condizioni siano o se i terroristi le abbiano già vendute. Gli obiettivi di Boko Haram non sono solo governativi, ma anche scuole e chiese, tutto quel che può rappresentare un ostacolo sulla via della assoluta islamizzazione della Nigeria. La violenza del gruppo è tale da aver lasciato dietro di sé una lunga scia di morte e distruzione, fino a compromettere i rapporti del Paese con le società petrolifere (non dimentichiamo che il petrolio rappresenta la principale risorsa della Nigeria, fornendo il 30% del Pil e ben l’85% delle esportazioni). Non tutti, poi, sono soddisfatti del mondo in cui le autorità stanno conducendo la vicenda: i cittadini hanno paura, non si sentono difesi e non si contano i tentativi di rassicurazione del governo sul fatto che ci sarà il massimo impegno per riportare a casa, vive, tutte le studentesse rapite. Meryam e le ragazze nigeriane sono solo due esempi tra tanti, venuti alla nostra conoscenza grazie al clamore mediatico che hanno suscitato.
Francesca Rossi