Blog di Livia Paola Di Chiara
A ritroso sulla linea del racconto, tra le pagine di una biografia che si svolge in una progressione univoca, Jo e Edward percorrono strade e perlustrano luoghi sempre alla ricerca dell’imprevedibile ispirazione. La battaglia costante contro la noia di lui, porta lei a seguirlo ovunque, assecondandolo nella vita come nella ricerca artistica. Tra i tanti premi e riconoscimenti di Edward e il carattere onnipresente di Josephine, in questa biografia, all’anno 1927, corrisponde un banale atto di ordinaria normalità…
Evidentemente non dev’essere stato un anno particolarmente decisivo, il 1927. Eppure, con entusiasmo e impazienza rievochiamo la frase storica del primo film sonoro che proprio in quell’anno vedeva la sua prima proiezione. In The Jazz Singer una voce fuori campo esclamava: Aspettate un momento! aspettate un momento! Non avete ancora sentito niente.
Assecondando l’invito e chiedendoci perché la quotidianità entri a far parte dell’abstract di una profilo così noto, il tono di una voce, che sembra riprenda a parlare dopo un silenzio durato una vita, rivela: “To me the most important thing is the sense of going on. You know how beautiful things are when you’re traveling.”
La voce è quella di Edward Hopper.
In una sola riflessione si configura il fulcro di una storia inedita, fatta di spedizioni quotidiane, dove la necessità primaria è nell’andare, più che nel giungere.
Il viaggio è quello di un artista che osserva le vite degli altri scorrere nella loro immobilità e che ricerca stimoli con un atteggiamento diametralmente opposto a quello dei suoi soggetti.
La sua è un’ispirazione fatta anche di spedizioni solitarie, in un itinerario che lo spinge oltreoceano, a Parigi, a Londra ma lo riporta costantemente a “casa”, in una meta incerta che d’inequivocabile ha solo quel chiarore sconfinato e bianco tipico della East Coast.
Addentrandosi negli spazi tanto vasti da poterci coltivare i sogni di ognuno, Hopper codifica un paesaggio che riscopre come straordinario. Qui il cielo è enorme, le ombre sono nette e le luci sfumano come in nessun altro posto. Nella loro integrità e nitidezza esse avvolgono e illuminano l’unicità di un luogo che sa di aurora fino al crepuscolo, attirando i viaggiatori più disparati che alla ricerca dell’american dream, subiscono le lusinghe di questa luminescenza.
Dall’illuminazione naturale di una facciata ordinaria, al freddo neon di un interno qualunque identifichiamo tra i tanti, quest’autore intento a sviluppare idee e definire distanze emotive che sembrano prove d’osservazione, più che punti di vista.
Il realismo americano di Hopper racconta l’oggettività presentandola in maniera apparentemente ingenua, ma con una quiete che rimarca queste distanze cingendole di un silenzio intimo che sa di privato.
Le sue scene statiche evocano un’imminente dinamicità in cui i soggetti sembrano immersi nel loro ambito, tanto da non restituire mai lo sguardo al fruitore. Di contro quest’ultimo si ritrova sul margine dell’invadenza, curioso d’intuire cosa accade e incapace a chiudere il cerchio poiché l’autore nasconde più di quanto non mostri.
Lo squilibrio d’informazioni provvisorie e discontinue, quasi lacunose ci lascia intravedere una sospensione emotiva che inquadra i frammenti scenici del mondo americano e li combina con pezzi di vita, a metà tra progresso e innocenza; di contro si avverte un energico equilibrio visivo che sarà anche d’ispirazione a fotografi come Robert Frank e Joel Meyerowitz.
Ma tornando al dato biografico relativo al 1927, dov’è la stranezza?
L’arte, come la vita, è fatta di storie che accadono e momenti che quasi mai vengono percepiti come cruciali nel loro coincidente divenire: solo col tempo ci si accorge di quanto un gesto, un incontro, un momento possano essere stati decisivi per un artista e per le sue visioni. Se la realtà può riemergere in qualsiasi momento e considerarsi il cardine storico (o una banalità?), in questo caso, l’atto di ordinaria normalità si riferisce all’acquisto convenzionale della prima automobile che permise ai coniugi Hopper di fare una vita on the road.
Perlustrando l’America dall’Atlantico al Pacifico, passando dal deserto del Nevada, lo Yellowstone Park, le coste della California e chissà per quanti altri luoghi, quel mezzo fu anche uno studio mobile. Hopper per poter osservare tutto nelle legittime tonalità aveva sostituito tutti i finestrini, compreso il parabrezza. E sembra quasi di vederli parcheggiati, fuori dal quadro, intenti ad osservare quel fenomeno che Richard Sennett ha definito il paradosso dell’isolamento in mezzo alla visibilità.
Sono lì, e mentre lei è intenta ad abbozzare disegni dal lato passeggero, lui, seduto nel sedile posteriore con il posto di guida ribaltato in avanti per accogliere le sue lunghe gambe, è altrettanto occupato a “ritrarre da fuori ciò che si vede dentro”.
Sempre sulla lama tra intimità e indiscrezione i soggetti di Hopper – una su tutti la moglie Jo – non rivelano nulla ma nella loro fissità restituiscono l’indizio di un’introspezione che descrive un ambiente altro, nel quale ognuno di loro si rifugia col pensiero.
L’evocazione “metafisica” e la sospensione emotiva creano un intervallo che ci circonda e che sottilmente ci ricorda quanto ognuno di noi spesso sia altrove.
Hopper, anche lui lontano dagli altri e quasi mai realmente presente nel posto in cui si trovava fisicamente, suggerisce e nega un racconto ritagliando spazi fisici e psicologici nei quali si riconosce un intero ciclo storico.
L.P.D.
Per ulteriori approfondimenti: Edward Hopper 1882-1967 Visione della realtà. TASCHEN, 2010.
Consigliato: Si parla troppo di silenzio – Un incontro immaginario tra Edward Hopper e Raymond Carver di Aldo Nove. SKIRA Editore. 2010