C’è un sasso, a pochissimi passi dal fiume Neretva, su cui qualcuno ha scritto “Don’t forget”. In fondo, sulla destra, quel grande ponte: un arco in pietra che ripropone nel modo più fedele possibile l’originale, quello che venne costruito nel corso del XVI secolo e ferocemente distrutto nei primi anni Novanta. Mostar, letteralmente “ponte vecchio” ma anche “custode del ponte”, è una delle città della Bosnia-Erzegovina che tengono particolarmente vivo il ricordo. Il ricordo di quell’odio difficile da comprendere e che dal crollo della Jugoslavia di Tito ha insanguinato i Balcani. Un ponte slanciato ed elegante, quello di Mostar, costruito sulla metà del Cinquecento per collegare le due sponde della Neretva e divenuto nei secoli simbolo di un’unione che pareva forte e indistruttibile quanto la sua struttura. Lo Stari Most, il vecchio ponte, sembrava collegare, infatti, occidente e oriente, simbolicamente rappresentati dalle due sponde del fiume che percorre buona parte della Bosnia-Erzegovina. A pochi passi da questo capolavoro ingegneristico cinquecentesco, poi, numerose moschee e chiese cattoliche, luoghi di culto delle due fedi che da tempo sono le due più diffuse in questa parte della ex Jugoslavia.
E poi ancora bar, bazar con prodotti tipici, ristoranti. Un centro vivace e dai mille colori, almeno sino all’inizio della fine, a quei drammatici anni della guerra in Bosnia. Non è difficile immaginare il motivo che nel novembre del 1993 ha spinto le milizie croato-bosniache a prendere di mira proprio il centro di Mostar e soprattutto il suo vecchio ponte: i simboli della pace e della convivenza interetnica sono, infatti, i primi bersagli in tempo di guerra. Bersagli militari, perché per la maggior parte della gente di Mostar, sia che si trattasse di cattolici croati che di musulmani, assistere al crollo dello Stari Most è stato come vedere distruggere la loro storia, la loro identità, a prescindere dai semplicistici miti del nazionalismo.
A esattamente vent’anni dal crollo del ponte, oggi Mostar sta rimettendo insieme i cocci, ma il lavoro è ancora molto lungo. Lo Stari Most, completamente ricostruito nel 2004, svetta nuovamente sulla Neretva e i giovani hanno ricominciato a tuffarsi dal suo punto più alto: una lunga tradizione, che per troppo tempo è rimasta interrotta e che da qualche anno vede i più temerari affrontare ancora quei circa venti metri di altezza, prima dell’impatto con la fredda Neretva.
Ma al di là del ponte, delle torri di difesa poste sulle due sponde, delle viuzze del centro storico, quest’ultimo Patrimonio Unesco, basta davvero poco per imbattersi in edifici rimasti distrutti, a pochissimi passi dal cuore della città. Ma non sono solo le macerie tangibili a persistere: accanto a loro ci sono anche quelle morali, forse ancora più preoccupanti. Il percorso di riconciliazione tra le due parti è, infatti, ancora terribilmente lungo, tanto che la città di Mostar è uno dei luoghi in cui la netta divisione tra cattolici e musulmani permane con convinzione. Una sponda del fiume interamente cattolica e l’altra musulmana, due squadre di calcio distinte, scuole e programmi di studio diversi per i bambini e una grande croce visibile da tutta Mostar perché posta dai croati in cima a uno dei monti che circondano la città, quasi come se fosse una bandiera identitaria più che un simbolo religioso. Ripensare a quel “Don’t forget”, scritto da qualcuno su quel sasso, suona diverso qui. Non è un tentativo di tenere vivo il ricordo di qualcosa che è successo nel passato e che con il tempo si rischia di dimenticare. È un monito per il presente, la volontà di aprire gli occhi alle persone ora e subito, la speranza che la memoria di come il senso di appartenenza etnica possa degenerare sappia spronare un cambiamento immediato di direzione. Per poter così ricostruire davvero, e non a metà.
Valentina Sala