Con La Grande Magia, in scena al Piccolo Teatro Strehler dal 21 novembre al 6 dicembre 2012, Luca De Filippo aggiunge un nuovo tassello all’itinerario che lo sta portando, nelle ultime stagioni, ad incontrare le commedie scritte dal drammaturgo napoletano nel periodo 1945-48.
La Grande Magia è tra le commedie meno rappresentate di De Filippo, messa in scena in passato solo in due occasioni, da Eduardo stesso e da Giorgio Strehler al Piccolo Teatro nel 1985 (ripresa fino al 1999 con due tournée all’estero, a Parigi, al Théâtre dell’Odéon, e a Mosca). A chi gli chiedeva cosa aveva voluto dire con la commedia, Eduardo rispondeva che aveva voluto significare che «la vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede… Ogni destino è legato ad altri destini in un gran gioco eterno del quale non ci è dato scorgere se non particolari irrilevanti» (Il Dramma, marzo 1950).
Il tema sostanziale è il rapporto tra realtà, vita e illusione: il Professor Otto Marvuglia fa “sparire” durante uno spettacolo di magia la moglie di Calogero Di Spelta per consentirle di fuggire con l’amante, e fa poi credere al marito che potrà ritrovarla solo se aprirà con totale fiducia nella fedeltà di lei la scatola in cui sostiene sia rinchiusa. Alla fine la donna ritorna pentita, ma il marito si rifiuta di riconoscerla, preferendo restare ancorato all’illusione di una moglie fedele custodita nella inseparabile scatola. Se si considera il periodo di scrittura e prima messa in scena del testo, tra il 1947 e il 1950, risalta la sua modalità coraggiosamente sperimentale, con numerosissimi riferimenti meta teatrali: Eduardo parla in modo preciso del rapporto tra il mondo del teatro e quello degli spettatori, e dei confini, invisibili ma invalicabili, tra queste due realtà complementari. Ma parla forse anche della crisi di un autore che aveva creduto di trovare la propria funzione negli anni difficili ma pieni di speranza e di entusiasmo del primo dopoguerra e si accorge che il mondo – cieco e sordo – preferisce non guardare in faccia la realtà: in particolare il teatro è considerato un’arte accessoria, non uno strumento di allerta ma solo un tranquillizzante gioco di illusione.
«È un Eduardo cinico e disincantato quello che scrive La Grande Magia – dichiara il regista – Ci consegna l’immagine di un’Italia immobile, prigioniera di circostanze immutabili, un Paese che si lascia scivolare in un insensato autoinganno. E’ palesemente dichiarato anche il gioco del metateatro, non solo un espediente drammaturgico ma anche una intima e accorata riflessione, che è giusto ricordare al pubblico, ma che mai sovrasta la finalità principale della commedia: raccontarci una storia, appassionarci a una vicenda umana, filtrata dalla lente di una straordinaria poesia».