La recensione del film – In principio ci fu Bob Dylan, ma prima di lui, Violeta Parra, il cui immeritato oblio è riscattato dal biopic di Andrés Wood Violeta Parra went to heaven, che le concede il giusto posto nella storia. E poi c’è stato Dave Van Ronk, alla cui vicenda biografica si ispira A proposito di Davis, dramma intimista dal tono agrodolce dei fratelli Coen. Il cantante folk del Greenwich Village mosse i primi passi insieme a Dylan, ma non raggiunse mai, per quanto dotatissimo, la stessa fama del cantastorie di Duluth, rimanendo ai margini della scena musicale newyorchese. Proprio come Davis, suo alter ego cinematografico, con le fattezze del ruvido attore Oscar Isaac, barba incolta e sguardo assente che scruta lontano, al di là dei piccoli locali di provincia dove si esibisce saltuariamente.
Spiantato, senza dimora e alla ricerca di un buon ingaggio, il folk singer si trascina stancamente verso Chicago, insieme a un gatto arancione che lascia e poi ritrova, alla sua chitarra in spalla e ad altri bizzarri personaggi. La storia di riscatto si trasforma presto in struggente e melanconica ballata di disillusione, nel momento in cui Davis non riesce a farsi strada nello star system, dopo aver raggiunto il produttore discografico Bud Grossman. Attraverso una narrazione quasi favolistica, ma con esiti fatali per il protagonista, la parabola di puro disincanto immersa in atmosfere retrò, conduce lo spettatore in un microcosmo intimo e grottesco, in cui i sogni di speranza e rivincita si scontrano col mondo famelico di produttori musicali senza scrupoli e di compagni di viaggio stravaganti e cinici. C’è John Goodman, ad esempio, attore feticcio dei due registi, nei panni di Roland Turner, musicista jazz eroinomane e l’algido Garrett Hedlund, nella parte di Johnny Five, coi quali Davis si troverà a viaggiare per le periferie americane. E Justin Timberlake, l’amico musicista Jim, che duetta a suon di folk con Jean, un’acida Carey Mulligan. Il felino tigrato Ulisse, poi, che funge quasi da guida spirituale, è tutto un programma: omaggio al “gatto” di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany e metafora del periglioso cammino verso il successo. Mentre Bob Dylan si esibisce in un locale di cantautori folk, Davis le prende di santa ragione e, nella scena finale, la ballata acustica suonata di fronte al produttore, risuona nella penombra di una claustrale camera sgombra. I fratelli Coen, dopo tanti film surreali e visionari, confezionano un affresco esistenzialista che tocca le corde dell’animo, grazie alla fotografia livida di Bruno Delbonnel e alle musiche di T-Bone Burnett. E anche se LLewyn Davis non raggiunge la meritata gloria, ci incanta con l’intensità e la forza delle sue canzoni e del suo estro creativo, destinato a rimanere indelebile nella memoria dei cinefili di ogni credo. Cinema “on the road”, quello dei due cineasti di St.Louis Park, essenziale e diretto, capace di infondere speranza, pur parlando di chimere irraggiungibili, e di rappresentare, con piglio nostalgico, l’indimenticabile epoca di saltimbanchi folk e di ballate dolci e tormentate.
Il trailer: http://youtu.be/aEfTIekU49M
Vincenzo Palermo