L’orrore deve essere fuori campo, come nel film-fenomeno del 1999, l’ormai leggendario “The Blair Witch Project”, o deve uscire subito allo scoperto in un’esplosione grandguignolesca degna del miglior George Romero (a cui si fa risalire, tra l’altro, la dicitura “film splatter” in riferimento al suo “Zombi”)? La querelle è vecchia e non staremo qui a rinverdirne la mitologia citando una sfilza di titoli. Sarebbe come stabilire una superiorità qualitativa tra due personalità di spicco del new-horror come Pascal Laugier o Fede Alvarez, avvezzi al minuzioso macello come in “Martyrs” o nel remake de “La Casa” e Michael Night Shyamalan, il cui immaginario spaventoso si nutre di colpi di scena più che di fiotti sanguinolenti. Blair Witch, ennesima operazione di riciclaggio (a volte non sarebbe inopportuno parlare di sciacallaggio, ma non è questo il caso) di un’opera generazionale, interiorizza la lezione del precursore attualizzando i due elementi portanti che hanno reso il primo film celeberrimo: il virtuosismo tecnico della soggettiva e lo scenario ottenebrante del bosco nel Maryland. In buona sostanza è un horror riuscito, claustrofobico e “sensoriale” (grazie ai disturbanti effetti sonori che si amplificano soprattutto nei tunnel angusti e tra dirupi abbandonati), che non produce però alcuno smottamento nel canone cinematografico di riferimento. Certo, non sempre le rivoluzioni si avvertono sin dal primo sussulto, ma possiamo affermare che il prodotto si colloca tra quelli di buona fattura, senza fare scintille.
Adam Wingard, regista di “You’re Next” (2011) e “The Guest (2014), sfrutta tutte le potenzialità della paura in soggettiva per mantenere un costante filo diretto con lo spettatore, il quale non potrà evitare di provare empatia nei confronti di personaggi talmente enfatizzati nel gesto plateale da scuotere anche il più coraggioso degli animi. Merito di un mix letale che contempla un sonoro poderoso fatto di urla laceranti e rami spezzati e un montaggio veloce che crea continue interferenze tra il realismo della storia e l’evidenza paranormale agente all’inizio sottotraccia, poi proliferante a tutto schermo con tutti i segni mefitici del male diabolico. Blair Witch sfronda dal suo microcosmo filologia, esegesi stregonesca e qualsiasi analogia con le arti figurative; non esistono rimandi alle visioni attanaglianti di Brueghel, Bosch o Goya, e nemmeno alle incisioni di Dürer. Del resto non siamo nel territorio da dramma claustrale battuto già da “The Witch”. L’agente del male, è donna, donna-megera, però, senza la connotazione estetica di “femme diabolique” come Asa, la prima, vera, sensuale strega del grande schermo rappresentata dal maestro Mario Bava come figura del desiderio sessuale ne “La Maschera del demonio”. Qui conta la foresta oscura soprattutto, non l’entità malvagia in quanto tale, ma i suoi effetti devastanti durante la spedizione organizzata per stanare una ragazza scomparsa che, si capirà sin dall’inizio, è la sorella di uno dei membri della spedizione.
Blair Witch ruota intorno alla scomparsa – avvenuta vent’anni prima rispetto alle vicende narrate – della sorella di James e di due suoi amici che, spinti dal desiderio di scoprire il mistero della strega di Blair, si erano avventurati nella tetra foresta di Black Hills, nel Maryland. Tempo dopo, James (James Allen McCune) e altri quattro accompagnatori battono la stessa pista muniti di drone telecomandato e telecamere, incappando in due bizzarri personaggi esperti in folclore popolare che decidono di aggregarsi a loro. A un film come Blair Witch ci si dovrebbe approcciare con velata ingenuità, senza cercare di scorgere dietro la frenesia del girato, del sonoro prorompente e di alcuni spunti che sembrano usciti da una puntata di “Twilight Zone”, una rivoluzione stilistica a tutti gli effetti. Adam Wingard ha talento e, soprattutto grazie ad alcune trovate davvero riuscite – di cui manterremo il riserbo per non rovinare la sorpresa – si conferma un autore da tenere in alta considerazione. Di seguito alcune foto di Blair Witch e il trailer.