Per due euro l’ora (o anche meno) il lavoro può essere una maledizione. Una fatica buia e assassina. Il 5 luglio del 2006, intorno alle 10.30 del mattino, le fiamme divamparono improvvise in un materassificio clandestino in un garage seminterrato di un palazzo a Montesano sulla Marcellana, in provincia di Salerno. Quando scoppiò l’incendio Giovanna Curcio, adolescente, era alla macchina da cucire insieme ad Annamaria Mercadante, alla quale, nonostante la differenza di età, era molto legata. Morirono così, soffocate da un lavoro senza luce e senza speranza. Neppure il processo sarà in grado di stabilire con precisione cosa abbia scatenato il rogo, ma le perizie accerteranno che nello scantinato di Montesano sarebbe bastato “un fiammifero per far saltare tutto”. Oggi, dopo dieci anni, quella storia è stata ripresa e raccontata, nel film “Due euro l’ora”, da Andrea D’Ambrosio, giovane regista originario di Roccadaspide, al suo debutto, dopo diversi documentari e qualche corto, con un lungometraggio arrivato nelle sale italiane dopo i consensi di pubblico e critica al Bif&st-Bari International Film Festival, il premio Laudadio per il regista del miglior film e il premio Artisti 7607 per la migliore attrice protagonista, Chiara Baffi. Nel cast della pellicola, prodotta dalla Achab Film e realizzata col contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in collaborazione con Rai Cinema, ci sono anche Peppe Servillo, Paolo Gasparini e l’esordiente Alessandra Mascarucci. Il film è stato girato interamente in Irpinia, a Montemarano, dove lo scorso primo maggio è stato proiettato in anteprima. «Ho sempre rivolto grande attenzione ai temi sociali. La denuncia e lo sfruttamento – precisa il regista – sono filoni che sento miei e che hanno bisogno soprattutto della finzione per arrivare prima e meglio agli spettatori. Più dello stesso documentario, percepito ancora come un prodotto di nicchia».
D’Ambrosio, il suo film parla di lavoro, un tema di grande attualità di cui il cinema sembra occuparsi ancora poco.
Vero, per me è stata una scommessa sociale, una sfida che sono riuscito a vincere grazie alla mia straordinaria squadra. In effetti mi viene in mente solo qualche documentario sul lavoro: per ritrovare film sull’argomento bisogna richiamare alla memoria maestri come Elio Petri o Francesco Rosi. Eppure, insieme all’immigrazione, è il tema del presente e del futuro, e quindi credo che la società italiana e i mass media dovrebbero occuparsene di più, prestare maggiore attenzione a certe problematiche.
“Due euro all’ora” è una storia del Sud, un dramma che risale al 2006. Sono passati dieci anni, ma siamo ancora in piena emergenza sociale.
Purtroppo è così, sono stato più volte da quelle parti, e non mi sembra che le cose siano cambiate molto. Lì, come in tante altri parti d’Italia, e del Sud in particolare, si continua a lavorare per pochi spiccioli, senza diritti e tutele. Il mio non è un film denuncia perché racconta una realtà tristemente nota a tutti e la crisi, se possibile, ha peggiorato ulteriormente la situazione. Ci siamo ormai abituati a certi soprusi, è questo il vero dramma.
Quale può essere il ruolo e il peso sociale di un film impegnato e doloroso come il suo?
I film non danno risposte, ma pongono quesiti. Il mio film è un monito affinché certe tragedie non capitino più. Purtroppo la mia pellicola è solo lo specchio dell’epoca in cui viviamo. Due euro l’ora è un compenso che non sconvolge più. Oggi, pur di lavorare, si è pronti ad accettare qualsiasi condizione, sempre più al ribasso. Diciamo che il confine tra legalità e illegalità si è assottigliato ancora di più, diventando quasi una sfumatura. Si vive sempre più spesso di lavoro nero, anzi sembra quasi diventata l’unica strada possibile per andare avanti.
Perché Montemarano? Perché un paese dell’Irpinia?
Montemarano è un paese meraviglioso. Abbiamo trovato un’accoglienza e un’ospitalità straordinarie, a partite dal sindaco che ha voluto a tutti i costi che il film si realizzasse nel suo paese. E’ stato un mese fantastico, ho stretto legami di amicizia profondi. E’ stata un’occasione di confronto e crescita importante, una bella esperienza. L’Irpinia con i suoi paesi, e con quell’appennino che Manlio Rossi Doria chiamava la terra dell’osso, si presta bene a una visione cinematografica. Purtroppo, invece, questa provincia è ancora poco promossa, mentre andrebbe valorizzata meglio anche nei circuiti cinematografici.
Il suo film, Due euro l’ora, ha catturato da subito l’interesse della critica, con giudizi decisamente positivi.
Abbiamo registrato un successo di critica sotto certi aspetti inaspettato, ben oltre le previsioni. Diciamo che dopo “Lo chiamavano Jeeg Robot” ci siamo noi, e non è poco. Credo, e spero, che in parte dipenda dalla qualità del film e degli attori e in parte dall’immagine diversa che emerge del Sud, raccontato, come sottolineato da alcuni critici, senza né croci né processioni. Inoltre non è solo un film di denuncia, ma anche un film sull’amore e sull’adolescenza: un moderno melò, come definito da Maurizio Porro del Corriere della Sera.
Com’è invece il primo bilancio ai botteghini?
Non è mai facile portare avanti film indipendenti, si fa una grande fatica. In Italia ci sono molti bei film, di piccoli e grandi autori, che spesso non arrivano al pubblico. Se non vinci un festival, se non hai un riconoscimento che, in qualche modo, ti fa emergere, ti porta alla luce diventa tutto più difficile. Noi abbiamo vinto il Bif&st di Bari, e questo ci ha dato una grossa mano.
E’ così faticoso fare cinema in Italia?
E’ sicuramente un’operazione complessa, il cui successo dipende da tanti fattori, tra cui il tema trattato, gli sponsor, l’attenzione del pubblico e della critica. Noi abbiamo scelto un argomento delicato e, quindi, una strada ancora più difficile, e ne siamo orgogliosi. In linea di massima credo che il problema sia soprattutto nella distribuzione, ma sarebbe stupido negare che a volte mancano anche le idee giuste. Il cinema italiano tende ancora a parlare troppo di se stesso. Si fanno dei film che girano intorno all’ombelico dell’autore, magari storie di vita vissuta. Occorrerebbe invece avere lo sguardo più lungo, interrogarsi, andare oltre quello che abbiamo a portata di mano. Io sono stato sicuramente aiutato dalla mia esperienza nei documentari, quella resta una grande scuola di tecnica e visione cinematografica.