Il Colibrì: recensione del film con Favino
Marco Carrera (Pierfrancesco Favino) da adulto non ha più nulla del colibrì, che è un uccello dai colori sfavillanti, con ottime capacità di volo, che sa muoversi all’indietro ed è in grado di stare sospeso mentre succhia il nettare dai fiori.
Marco infatti non compie acrobazie, perché si lascia vivere anche quando la moglie Marina gli rivela di averlo sempre tradito dopo aver scoperto che lui – il protagonista di questo nuovo e atteso film di Francesca Archibugi – ha una relazione fedifraga ma platonica con l’amore di sempre, la francese Luisa Lattes (Bérénice Bejo). Ed è proprio Marina che scuote questa pellicola, grazie all’interpretazione di una straordinaria Kasia Smutniak.
L’attrice riesce a trasferire sullo schermo l’isteria e l’emotività incontrollabile del suo personaggio. Marco al contrario è congelato nelle sue emozioni che vengono liberate solo verso il finale. A incastrarlo nel gelo emotivo e nella conseguente paura di lasciarsi andare è una tragedia che, quando era adolescente, ha colpito la sua famiglia borghese e benestante: la mamma (Laura Morante) è un’architetta, mentre il padre (Sergio Albelli) è un ingegnere.
Il film di Francesca Archibugi è ben pensato e appare come un puzzle che deve essere ricostruito. Ed è proprio qui l’inghippo. Personalmente ho avuto la sensazione che tra me e Marco ci fosse un muro, perché per tutto il primo e per grande parte del secondo tempo non ho sentito trasporto né empatia per quest’uomo così mite e compassato. La sua storia, che è straordinaria per le cose che gli accadono in un contesto ordinario, viene raccontata mediante eccessivi flashback e flashforward che in fase di montaggio hanno appesantito sia la regia che la sceneggiatura rendendo anche l’ottima trama un po’ artificiosa.
Il colibrì è per la verità un film che mi ha convinta a metà, forse perché mi sono affezionata al personaggio di Favino solo alla fine e ciò a causa di un cerebralismo che tende a ricalcare la stasi emotiva che aveva ingabbiato il personaggio principale, il quale resta immobile fino a quando un’altra tragedia non gli restituisce, tramite la depressione che ne consegue, la carica per vivere. Come gli suggerisce lo psichiatra (Nanni Moretti) che aveva in cura la moglie Marina.
Insomma, Marco – come ho sostenuto – non ha più nulla del colibrì. In verità Marco da bambino aveva in comune con questo particolare animale solo le dimensioni minute. La pellicola, nonostante alcuni difetti – dovuti in primis alle difficoltà nel trasporre sullo schermo il romanzo di Sandro Veronesi con una certa fedeltà – narra tuttavia una storia individuale molto bella, dal significato importante che apre a più riflessioni sulla vita e su come dovremmo viverla per assaporarla in tutte le sue molteplici sfaccettature superando una volta per tutte il terrore di soffrire. Maria Ianniciello