Frankenstein – recensione: abbagliato dall’idea che il potere scientifico possa essere alla base della creazione della coscienza, il regista Bernard Rose ha voluto, con questo ennesimo adattamento dal romanzo scritto duecento anni fa da Mary Shelley, creare una costante immedesimazione dello spettatore nel dolore di una creatura senziente e volutamente emarginata. Una delle trovate più riuscite di un film in realtà sghembo e assai approssimativo in alcune scelte narrative, è proprio quella di far parlare la coscienza del mostro con le vere, tragiche parole della regina del gotico, riportate in voice off poiché l’outsider sa solo emettere grugniti e urla indistinte. Dopo il non riuscitissimo “Il Violinista del diavolo”, Bernard Rose compone una ballata di solitudine e miseria raccontando un inedito “coming of age” visto dalla sola prospettiva di chi è isolato da un mondo respingente e cattivo. La vicenda del “moderno prometeo” rimane sullo sfondo, perché ad attrarre l’attenzione del regista ci sono le reazioni emotive, i tentativi di riabilitazione, la confusione e l’angoscia avvertiti da una creatura che ha consapevolezza della propria diversità rispetto al mondo dei normali e che, soprattutto, mantiene un forte legame affettivo con la “madre”, la dottoressa Marie (Carrie-Anne Moss).
Lei, il marito Victor (Danny Huston) e Adam (Xavier Samuel) formano il triangolo che sta alla base di ogni conflitto parentale fin dall’antica tragedia classica, ma nel nuovo Frankenstein ambientato nella spersonalizzante Los Angeles contemporanea, il rapporto conflittuale a tre perde di intensità drammatica. Rose preferisce un approccio intimista che si mantiene però in un precario equilibrio tra eccessi splatter e intermezzi melodrammatici che appaiono decisamente enfatizzati e fuori posto. Servono solo a destabilizzare lo spettatore “colpendolo” con fiotti di sangue e violenze esibite che, unitamente alla recitazione sopra le righe di Xavier Samuel (la creatura), non fanno capire bene se il kitsch sia realmente voluto e se la parodia sia davvero involontaria. Muovendosi su un retroterra letterario ottocentesco e con la precisa volontà di attualizzare un tema sentito come quello che lega la creazione all’atto scientifico, Rose mette in luce le implicazioni etiche e le possibilità che pone oggi la scienza, lavorando sul corpo perfetto del protagonista destinato però a deteriorarsi con mille piaghe. Perché la morte, in fin dei conti, è un nemico che non si può sconfiggere, tanto più se l’amore provato da Adam per sua “madre” è rinnegato dalla stessa creatrice che non esita a lasciarlo in pasto ai tecnici di laboratorio. In fin dei conti Frankenstein nella versione “young adult”, anche se i momenti più gore ci ricordano l’appartenenza del regista al cinema di genere, è l’ennesima variazione sfumata nel melodramma “al sangue” del freak ghettizzato dal consorzio umano e desideroso solo di condivisione ed empatia con l’altro.
Ed ecco in sintesi la trama di Frankenstein: nella Los Angeles odierna, tra malfamati quartieri periferici e spoglie stanze di ospedali, si consuma la triste vicenda di una creatura di nome Adam (Xavier Samuel), venuta al mondo grazie alla volontà “prometeica” dei due coniugi Victor e Marie, che gli infondono la scintilla di vita senza preoccuparsi delle conseguenze. Dopo essere stato abbandonato al suo destino, Adam si scontra col mondo esterno che non gli riserva altro che violenze e soprusi. Copertosi presto di piaghe purulente a causa di un’infezione congenita, il mostro vaga alla ricerca di se stesso incontrando solo dolore e morte finché non ritrova colei che l’ha creato e accudito, ma che ora non esiterà a rinnegare. Di seguito il trailer.