Gennaro Porcelli è un’anima blues “Made in Naples”, il suo approccio con la musica è autentico, ruvido e verace. “Alien in transit” è il titolo del suo nuovissimo album, nato in seguito ad un percorso professionale ricco di soddisfazioni ma anche di sfortunate peripezie. Gennaro Porcelli è, da anni, chitarrista ufficiale di Edoardo Bennato, nonché leader del trio blues denominato trio Gennaro Porcelli & the Highway 61. Spesso invitato all’estero , soprattutto negli Stati Uniti per fertili e prestigiose collaborazioni come quelle con Jon Paris (il leggendario bassista di Johnny Winter), Steve Holley, Mark Epstein e Michael Noll, Gennaro si è trovato, suo malgrado, al centro di uno spiacevole misunderstanding: invitato per un live negli Usa qualche tempo fa, Porcelli è rimasto in stato di detenzione per un paio di giorni.
La shockante disavventura si è rivelata in ogni caso fruttuosa per il giovante talento partenopeo che, ispirato dall’accaduto, ha dato vita ad un album incentrato su testi e sonorità graffianti, fumose, maschie, black. Ad immettere l’ascoltatore lungo le vie del canyon strumentale di “Alien in transit” è “Immigration man”: il brano che, come altri, ha visto la collaborazione di Mark Epstein, è la storia di un uomo malvoluto, giunto in terra straniera spinto dalla passione per la musica e con la voglia di suonare. Il flusso di un blues retrò scorre imperioso fino alle note di “Woman across the river” in cui le vorticose emozioni dell’amore creano un’atmosfera suadente e misteriosa. Un lungo assolo di chitarra e gli eleganti interventi dei fiati introducono l’intensa “Erba cattiva” scritta ed interpretata da Enzo Gragnaniello, una canzone amara, malinconica; si tratta di un’ “erba” cattiva che non muore, non vede e non parla ma è in grado di spiegare i pensieri della gente che sta nel mondo. Un’ “erba” attaccata al muro e piena di paure ma che, attraverso le parole di Gragnaniello e la chitarra di Porcelli, trova la voce per dire la sua.
Nel disco trapelano tante mani, oltre a quelle di Mark Epstein, anche quelle di Andy J. Forest, Ricky Portera, Ronnie Jones, Rudy Rotta, Massimo D’Ambra, Renè Messina, Diego Imparato, Carmine Landolfi e tanti altri musicisti che popolano l’underground musicale campano e nazionale.
L’aura da saloon di “It takes a lot to lough it takes a train to cry” di Bob Dylan con i suoi favolosi guitar solo, è l’intro perfetta per la dolce ballad “I’m here”: una leggiadra voglia d’amore e l’inedito intervento al violino di Simona Sorrentino regalano una sfumatura tenera ad un album molto virile.
Il sound latineggiante de “La giostra” inneggia alla libertà del bluesman girovago e cittadino del mondo per poi lasciare che una dama rovesci il suo mondo fatto di note. La performance live di “Dallas”, il brano di J. Winter profuma di povere da sparo, proiettili e pistolettate tra strumenti rivali. Ci pensa l’arcobaleno strumentale di “Slim’s Walk” a ristabilire gli equilibri nella valle del blues.
Raffaella Sbrescia