Ne è avvolta l’umanità, dall’immensità oscura, un’umanità senza speranza, senza altra via che quella di inseguire sentimenti ancestrali, primitivi? E` questo il dubbio doloroso, penetrante, che lascia nello spettatore la pièce tratta dal romanzo di Massimo Carlotto, “L’oscura immensità della morte”. Un buio che nasce da una tragedia devastante nella vita e nella mente di Silvano Contin (Giulio Scarpati), a cui vengono uccisi moglie e figlio durante una rapina e che partorirà altro dolore. Un buio dalla cui immensità il personaggio non riuscirà a sottrarsi se non percorrendo il sentiero della “storia che si fa antica”, quella della vendetta spietata. Il buio non risparmia Raffaello Beggiato (Claudio Casadio), l’ergastolano. Una vita disgraziata, bruciata, che sta per terminare a causa del cancro e che, tuttavia, lascia affiorare tratti di umanità, di comprensione. Un arrancare, il suo, su pareti di vetro, con la sensazione claustrofobica di vedersi chiudere in faccia, una dopo l’altra, ogni via d’uscita, fino al sorprendente e, in un certo senso catartico, finale della sua esistenza. Alessandro Gassman, brillante regista di questo spettacolo interessantissimo e ricco di spunti di discussione, mette efficacemente sul palco le riflessioni dei due personaggi, la vittima e il carnefice, in un parallelismo scenico molto suggestivo. Dalla richiesta di perdono giunta al Contin per mano dell’avvocato dell’altro, scatterà nella mente del primo, abbrutita da quindici anni di dolore, il terribile piano per scovare il complice latitante. “Per perdonare bisogna avere una vita”, si dice Contin/Scarpati, quando è difficile anche soltanto fingere normalità e tenere a bada l’urlo che si ha dentro. Nel buio e nella solitudine che lo avvolge, che avvolge tutta la storia, arriverà al punto di confine tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia, quanto mai labile e facilmente oltrepassabile. Lo stesso Beggiato/Casadio, partendo da una posizione di indubbia e consapevole colpevolezza, giungerà allo stesso confine, immolandosi volontariamente a un destino senza più futuro. Nella bellissima scenografia di Gianluca Amodio, che rende atmosfere rarefatte e oscuranti grazie a un sapiente uso di luci affilate come stiletti (di Pasquale Mari) e di velatini, funzionali a suggestive videografie di supporto (di Marco Schiavoni), Scarpati e Casadio danno vita a due personaggi intensi, molto lontani tra loro, ma indovinatissimi dal punto di vista attoriale. Il primo ben restituisce la glaciale determinazione, a tratti delirante, del comune borghese descritto nel romanzo di Carlotto, mentre il secondo ha il physique du role che ci si aspetta e, col suo accento romagnolo, conferisce grande naturalezza e credibilità al suo personaggio. Tanto da arrivare alla scena in riva al mare, sorprendentemente proiettato lungo tutto il palcoscenico, in cui un suo eloquio in stretto dialetto romagnolo viene supportato dai sottotitoli. Un momento struggente in una storia cruda.
Uno spettacolo che, aldilà di tutte le considerazioni sociologiche del caso, e seppure in modo molto soft rispetto al libro, porta in scena le riflessioni a voce alta di due uomini travolti dai rispettivi drammi personali e in una lunghissima fase esistenziale dove l’oscurità regna sovrana. La stessa determinata, folle lucidità della vittima che diventa brutale carnefice, convinto di essere in diritto di non perdonare nessuno, non fa altro che confermare la vittoria delle tenebre nella mente e nel cuore. Anche se dentro, ora, l’urlo si è placato. Un’opera che induce a riflettere e a non giudicare. Interrogativi scomodi. Una manna, di questi tempi.
Paolo Leone
Lo spettacolo sta andando in scena a Roma, presso il Teatro Eliseo, dal 18 al 30 marzo 2014
Con Giulio Scarpati e Claudio Casadio
Regia di Alessandro Gassman; Costumi di Lauretta Salvagnin; Scene di Gianluca Amodio; videografie e suoni di Marco Schiavoni, luci di Pasquale Mari;
Produzione del Teatro Stabile del Veneto
Ufficio Stampa Eliseo a cura di Maya Amenduni
Le foto di scena sono fornite dall’Ufficio Stampa