Mi tremano i polsi solo a pronunciare il termine “pedofilia”. Questa vibrazione l’ho provata ancor più guardando “Il club”, film di Pablo Larraín, abilissimo nel provocare una morsa allo stomaco che arriva visceralmente perché quest’opera agisce molto in profondità. Quando si esce dalla sala non vorresti toccare nulla, ti senti disturbato, è come se da un lato finalmente respirassi e dall’altro però ti senti ancora attaccato alla poltrona. Il regista cileno affronta un argomento così delicato – la pedofilia nella Chiesa – in un modo originale e personale. La sua mano è, infatti, immediatamente riconoscibile, non solo dalla messa in quadro, ma anche dalle suggestioni che ci comunica. Il film doveva uscire in Italia a novembre, purtroppo, però, è stato messo in stand-by, ma finalmente grazie a Bolero Film potrete scegliere di recarvi al cinema dal 25 febbraio e vi consiglio di non perderlo. Il regista di “No – I giorni dell’arcobaleno” ci pone davanti queste figure, pronte a occupare tutta l’inquadratura, quasi a voler trasmettere quanto siano ingombranti nel sistema sociale e forse anche per loro stessi. Ne “Il club” un gruppo di uomini vive in una casa isolata in una piccola cittadina vicina al mare, La Boca. Lo definiscono un «centro di preghiera e penitenza, oltre che di pentimento». Vidal (Alfredo Castro), Ortega (Alejandro Goic), Ramírez (Alejandro Sieveking), Silva (Jaime Vadell) e il nuovo arrivato Lazcano (José Soza) sono stati scomunicati per aver avuto rapporti coi minori. L’unica donna è la sorella Mónica (Antonia Zegers), la quale si presenta con le fattezze di una perpetua, quasi “devota” a quel compito, ma rivelerà delle sfumature nere e (dis)umane anche solo con uno sguardo. C’è un motivo che li fa evadere da quelle mura e ciò avviene quando il loro levriero deve correre per le scommesse, peccando così di avarizia. In seguito a un evento compiuto da uno di loro, arriva uno psicologo, padre García (Marcelo Alonso), tra l’altro gesuita. A tratti, pensando a quel luogo distante dal resto della comunità, torna alla mente “La zona” di Rodrigo Plà (2007), dove venivano mostrate le condizioni di vita e le contraddizioni che caratterizzano l’odierna area suburbana che circonda Città del Messico. Lì c’erano due gruppi sociali, quelli facoltosi – residenti in un quartiere chiuso – e gli abitanti delle periferie.
Quando nel film “Il club” irrompe un’ex vittima di abusi, sembra come se il limen venga superato per avvicinarsi alla zona x, in cui vivono gli ex preti. In linea con la logica di clan, tra loro vige l’omertà persino di fronte a questa figura, con cui dovrebbero effettuare un percorso, per così dire, di consapevolezza e riabilitazione. Il tema della pedofilia, e in particolare nella Chiesa, ricorre sempre più sui nostri schermi per quanto sia effettivamente scomodo. Di recentissima uscita è “Il caso Spotlight” di Thomas McCarthy, in cui il Giornalismo con la “G” maiuscola smaschera le colpe di coloro che dovrebbero proteggere. Il team scoprì nella sola Boston ottantasette preti pedofili. Se scorriamo la filmografia, soprattutto due documentari hanno trattato questo focus: “Mea Maxima Culpa – Silenzio nella casa di Dio” (2013) e “The Prey” (2014). Il primo è del celebre regista americano Alex Gibney che, senza remore, denunciava come la Santa Sede avesse coperto gli abusi contro i bambini anche audiolesi e, credetemi, le testimonianze di questi sopravvissuti fanno accapponare la pelle. Il secondo è diretto da due italiani, Luca Bellino e Silvia Luzi, i quali hanno puntato l’obiettivo in particolare sull’Istituto Provolo di Verona, in cui per anni bambini sordomuti sono stati ripetutamente violati dal responsabile di questa struttura religiosa. Tutti questi film hanno un’emozione su tutte che li accomuna: lo sconcerto nel pensare che uomini religiosi di cui ci si dovrebbe fidare ciecamente vanno – e di tanto – oltre il confine. In ambito teatrale è più difficile mettere a tema la pedofilia probabilmente anche per via dello spettacolo dal vivo. Tindaro Granata con “Invidiatemi come io ho inviato voi” ci è riuscito anche se, nello specifico, il pedofilo non era un religioso.
Sul grande schermo indubbiamente c’è una potenza amplificata dal peso dell’immagine e, nel caso de “Il club”, dei silenzi. Si respira a tratti quell’apnea provata guardando “Post mortem” dello stesso Larraín in cui si avvertiva fortemente il peso di un corpo morto. Anche in quest’ultimo suo film il cineasta carica, ma non nell’accezione negativa del termine. Tutto sembra calmo, spoglio, sterile ed è proprio quell’atmosfera, amplificata dalla fotografia di Sergio Armstrong che appesantisce l’animo dello spettatore di turno. Questo, però, non è un difetto, rientra nell’economia del disegno del regista e di una sceneggiatura – scritta con Guillermo Calderón e Daniel Villalobos – che non vuole dare sconti né a chi agisce sullo schermo né a noi che guardiamo. Se con “Mea Maxima Culpa”, mediante ricostruzioni e interviste, si intuiva come quei preti avessero superato il confine umano (e ancor più religioso) e sacro della vita per sfociare in quello bestiale, ne “Il club” lo si tocca proprio con mano grazie allo stile rigoroso della regia e alla magistrale interpretazione del cast su cui spicca il suo attore feticcio, Castro. Non è un caso che ci siano queste sfide tra cani, simboliche di qualcosa che ha toccato anche le persone rendendole animali. Tutta la pellicola è disseminata di segni, un altro è l’acqua del mare. Ci sarà scampo?