Il grande dittatore, l’analisi del film di Charlie Chaplin

Il grande dittatore (1940) è un film che ancora scuote le coscienze di chi lo guarda, perché rafforza l’idea che le guerre siano inutili e che i piccoli e i grandi conflitti si possono risolvere mettendo da parte gli armamenti, ideali o reali che siano. In ognuno di noi c’è un guerriero. Possiamo sfruttarlo a nostro vantaggio battendoci per cause giuste, che mettono tutti gli esseri umani al centro, a prescindere dall’etnia, dalla classe sociale e dalla nazionalità. Di seguito l’analisi del film.

Il grande dittatore, analisi

Che cosa ci racconta Charlie Chaplin ne Il grande dittatore? Le prime sequenze del film sono ambientate nel 1918, all’indomani di una grande guerra, a cui partecipa anche un barbiere ebreo, che cadendo da un areo perde la memoria. Siamo in Tomania. Passano gli anni. Un dittatore – che odia gli ebrei e la democrazia, dal nome inequivocabile (si chiama Adenoid Hynkel) – ha preso il potere. Il dittatore è il sosia del barbiere ebreo.

La macchina da presa si muove su due piani paralleli. La telecamera entra sia nella vita del barbiere – che intanto è tornato nel ghetto e qui ha incontrato Hanna (Paulette Goddard) – che nella quotidianità di Hynkel, il quale tra proclami e discorsi deliranti vuole conquistare il mondo stringendo delle alleanze col suo ‘collega’ Napoloni (si tratta di Mussolini).

Il barbiere viene rinchiuso poi in un campo di concentramento e, siccome è identico a Hynkel, viene scambiato dalle milizie per il dittatore. Ed è proprio in questo momento – che spinto anche da Schultz (un ufficiale delle SS con cui aveva stretto amicizia durante la grande guerra e a cui aveva salvato la vita) – che il barbiere parla alla nazione. Charlie Chaplin scrive uno dei monologhi più citati e illuminanti della Storia del Cinema. Lo sguardo è triste, la voce chiara, la luce abbagliante.

Nel film Chaplin usa la comicità per raccontare un dramma collettivo della cui tragicità e portata lo stesso attore e regista non era del tutto consapevole. Lo spettatore e la spettatrice sentono così la voce di Chaplin, il quale per la prima volta parla in un film (aveva cantato ma mai parlato).

Scrive Fernando Di Giammatteo nel libro ‘Storia del Cinema’ (Marsilio. Lo trovi qui): “Chaplin si sdoppia ma continua a essere quel che è sempre stato. Espone la sua collezione di gag”. Molto significativa è la danza di Hynkel con il pallone del mondo che gli scoppia tra le mani. Per Di Giammatteo (e io convengo), Chaplin ha raggiunto, dunque, con questa pellicola la piena maturità espressiva che gli apre prospettive di maggiore impegno. Lo trovi su Ray Play. Maria Ianniciello

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