Guardando il film Il vizio della speranza, in una sala cinematografica di un multisala di provincia, mi viene in mente un documentario dal titolo Il corpo delle donne. L’autrice è una donna, Lorella Zanardo, che ci dimostra come, tra paillettes e lustrini, la TV ci stia facendo credere che, per essere davvero emancipate, bisogna per forza spogliarsi di fronte ad una telecamera.
Edoardo De Angelis ne Il vizio della speranza compie un’operazione inversa – portandoci in un contesto senza paillette e senza lustrini, buio e tetro, come le nuvole nere che aleggiano su Castel Volturno – e al tempo stesso analoga perché il regista napoletano alza l’obiettivo ancora una volta sul corpo delle donne o meglio sul femminile rappresentato non solo da mamme, a cui viene tolta la possibilità di essere davvero Madri, ma soprattutto dalla Terra offesa e ferita.
Il campo d’azione di questo film è un luogo dentro il luogo, nel quale ogni cosa perisce e dove la speranza è un vizio che pochi possono permettersi come del resto il desiderio di libertà simboleggiato dal cavallo nero che Maria (Pina Turco), la protagonista dai lunghi capelli scuri, decide di liberare.
Il vizio della speranza è un film ricco di simboli e di metafore; è una pellicola che, sulle note di Enzo Avitabile, descrive alla perfezione le inquietudini e le miserie di un territorio che piange lacrime e sangue, un misto tra inferno e purgatorio dantesco, in cui le acque del Volturno traghettano donne disperate che, per denaro, vendono i loro figli a coppie che non possono averne. Il magnaccia è una signora ingioiellata (Marina Confalone) che sembra una caricatura e che parla per frasi fatte e comunque, a volte, veritiere.
La speranza però, secondo Edoardo De Angelis, arriva dall’utero femminile, dal mare e da quel raggio di sole che scalda il cuore e il corpo di chi è disposto ad accoglierlo davvero. Si tratta quindi di uno stato della mente grazie al quale possono accadere davvero i miracoli.
In questo film il passato gioviale – simboleggiato dalle giostre degli anni Ottanta che a loro volta rappresentano l’alba della vita – si mescola con un presente tetro e incerto in cui le migranti di colore si prostituiscono in ambienti sporchi, malsani… alienanti.
Maria (il nome non è casuale) è una delle poche italiane che compare nel lungometraggio e alla quale viene affidato l’arduo compito di redimere una terra dove gli esseri umani non hanno più il coraggio di essere davvero umani.
A Castel Volturno le madri di ieri – che hanno perso la loro dignità (vedi il personaggio di Cristina Donadio) – sperano in una redenzione che deve passare mediante le figlie mentre un pitbull che si chiama Cane, proprio come il pastore tedesco del libro I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante (anche lei napoletana come il regista), accompagna Maria, incinta e disperata, lungo il calvario della vita… (recensione di Maria Ianniciello)