Ezio Guaitamacchi è un giornalista e scrittore italiano ma soprattutto un grandissimo appassionato e conoscitore di musica. Tantissime sono state le sue pubblicazioni, le consulenze artistiche e le esperienze editoriali. Dopo la realizzazione di numerosi saggi e guide sulla storia del rock, Guaitamacchi si è cimentato anche nella scrittura di un giallo, intriso di musica, intitolato “Psycho Killer. Omicidi in fa maggiore” e, a Cultura e Culture, lui ha raccontato come è nata questa nuova avventura.
Ezio Guaitamacchi, lei è un giornalista, musicista, critico musicale, scrittore, conduttore e autore radio-retelevisivo ma è prima di tutto un grande appassionato di musica. Cosa è per lei la musica e in che modo questa passione si è evoluta nel tempo?
Sono stato molto fortunato perchè sono riuscito a trasformare la mia passione in una professione. Ero ancora ragazzino quando cominciavo a seguire i miei fratelli più grandi, ascoltavo musica, suonavo, andavo ai concerti, un po’ per spirito emulativo, un po’ per piacere e da lì non mi sono più fermato. Poi la passione per la musica si è evoluta: all’università mi sono preso una specie di cotta culturale e artistica per l’America. Qualsiasi cosa fosse americana suscitava in me un fascino inevitabile. Così nel 1976, in occasione del duecentesimo anniversario della nascita degli USA, realizzai il sogno di andare in California:una vera e propria terra promessa. Questo primo viaggio accese ancora di più la passione che negli anni è andata avanti: verso gli anni ’80 cominciai a pensare alla divulgazione per quelli che, come me, erano appassionati. Nel 1982 fondai “Hi, Folks!” che si occupava delle tradizionali band americane: blues, jazz, musica celtica ma anche del folk revival italiano che, in quegli anni, propose gruppi eccezionali come, ad esempio, La Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ho quindi riposto gli strumenti e la penna è diventatata il mio lavoro.
Ci racconta la sua esperienza nella “culla” della musica americana bianca?
In quel caso si trattò di una scelta fortunata: andai a suonare nelle cosiddette “Appalachian Mountains”, l’equivalente di quello che può rappresentare il Mississippi per il blues. Ancora oggi in queste zone ci sono delle antiche tradizioni mantenute vive dalle nuove generazioni . A quei tempi si organizzavano delle conventions in cui ci si riuniva per condividere una passione. Pur essendo completamente estraneo a quella realtà, partecipai ad un incontro di violinisti e fui accolto davvero molto bene. Fu un’esperienza molto divertente ed è proprio questo che quello, e tanti altri viaggi musicali, sono stati per me: divertimento puro.
Qual è stato e come è avvenuto il passaggio da “Hi, Folks!” a “Jam”?
“Hi, Folks” era una rivista bimestrale, con sei numeri all’anno, nel corso di 10 anni, ci occupammo di una serie di correnti musicali che vissero un momento d’oro, cercavamo di seguire strade musicali di un certo livello qualitativo. Nel corso degli anni, però, la scena musicale si era evoluta, ci fu il ritorno del rock alternativo e tanti avvenimenti importanti per cui, non avendo alcun tipo di preclusione, decisi di seguire questi nuovi movimenti con “Jam” e, grazie all’editore Irene Marcucci, il progetto decollò.
Quanto e come è necessario saper suonare per fare il critico musicale?
Ci sono due scuole di pensiero su questo argomento: una è quella capeggiata da Greil Marcus, celebre giornalista musicale e critico culturale americano, il quale sostiene che il non saper suonare sia un requisito indispensabile per essere un buon critico poi ci sono io che, lungi dal ritenermi caposcuola di alcuna corrente di pensiero, dico che se il saper suonare rappresenta un’arma in più per esprimere un giudizio critico di un’opera artistica.
Lei ha raccontato le città americane attraverso le loro musiche. Potrebbe farci qualche esempio?
L’ho fatto in tante occasioni, in tanti modi diversi, ho viaggiato molto, l’ho fatto spesso sulle strade della musica ed è sopraggiunta la curiosità di volerne sapere di più. La musica popolare è generata dalla cultura del popolo per cui è possibile raccontare una città attraverso la musica perchè essa è in grado di diventare un tratto distintivo di un popolo o di un luogo.
Cosa la affascina dei delitti rock?
Non subisco affatto il fascino del dark side, del male o del mistero, sono uno “colorato”. I “delitti rock” nascono dalla morte di una ragazza che avevo frequentato e che era rimasta vittima di Phil Spector, si trattava dell’ attrice e modella americana Lana Clarkson. Quando scoprii la cosa, comprai un libro in cui c’era scritto cosa era accaduto a Lana, non so cosa scattò in me ma pensai di fare un lavoro simile per tutte le altre morti celebri. Da lì è nato un progetto in cui raccontavo la vita di grandi personaggi leggendari e anche le loro morti. Più che dal fascino del mistero, sono un appassionato di gialli classici più alla Agata Christie che alla Patricia Cornwell.
Ci parla del suo ultimo libro “Psycho Killer. Omicidi in Fa maggiore” e da cosa è nata l’idea di scriverlo?
Durante l’estate del 2011 finii la produzione di “Delitti rock” , era stata un’esperienza molto faticosa e mi ripromisi di non occuparmi più di un tema simile ma appena due settimane più tardi morì Ami Winehouse, mi fu chiesto di realizzare una puntata extra e fu proprio in quel periodo che mi venne in mente la storia che sarebbe stata la trama del mio libro intitolato “Psycho Killer”. Per quanto riguarda lo stile, in questo lavoro più che di spiegare, ho bisogno di lasciare che il lettore viva la vicenda usando la fantasia. Per me è stato come fare un film dopo aver girato tanti documentari: ho cercato di concedere al lettore la libertà di comprendere i sottili equilibri presenti all’interno della storia e fare in modo che scattasse in lui la competizione con il protagonista del libro nel risolvere il mistero. Si tratta di un giallo rock, infarcito di musica e incentrato su un doppio livello di lettura. Diciamo che è destinato sia a chi ama i gialli sia agli appassionati di musica. Il mio Poirot , Marco Molteni, non è un raffinato gentleman, eppure è in grado di conseguire il proprio riscatto personale.
C’è qualche progetto che vorrebbe mettere in pratica prossimamente?
Ho due desideri: mi piacerebbe che questo libro diventasse un film, la quasi sceneggiatura del testo si presterebbe bene ad una visualizzazione e mi piacerebbe che se ne occupasse un regista che ama la musica. Il secondo desiderio è che questo libro non rimanga un episodio isolato e che magari rappresenti l’inizio di una carriera parallela per risolvere altri casi legati alla musica. A Babbo Natale chiederò di lasciarmi continuare a fare le mie mille robe, io vado avanti con le mie idee poi quello che verrà sarà, come sempre, relativo alle circostanze.
Raffaella Sbrescia