Intervista a Francesco Cinquemani, il regista che lavora con i detenuti-attori

Francesco Cinquemani
Francesco Cinquemani

Incontriamo Francesco Cinquemani alla fine dello spettacolo “La fine all’alba”, allestito presso il Teatro Golden di Roma. Cinquemani lavora con la Compagnia Stabile Assai del carcere di Rebibbia, la cui storia sarà al centro del documentario “Offstage” che uscirà nelle sale cinematografiche a settembre. In questa intervista il regista parla dei detenuti, della loro riabilitazione, che definisce redenzione: «Hai sbagliato paghi, ma questo deve valere per tutti», dice prima di definire la Cultura ultima arma rimasta dalle persone intelligenti. Cinquemani è stato un giornalista e direttore di diversi giornali, poi si è dedicato alla regia ed è autore di alcuni programmi televisivi.

Partiamo dall’antefatto…hai lavorato per realizzare un film documentario sulla storia della Compagnia Stabile Assai del carcere di Rebibbia, Offstage, che sarà nei cinema nel prossimo autunno. Come è avvenuto il contatto con questa realtà teatrale così particolare?

Antonio Turco (il fondatore della Compagnia, ndr) mi fu presentato un paio di anni fa da un amico comune, che è il produttore del film e della Compagnia stessa, Sante Giavazzi. Parlavamo della possibilità di realizzare un film di finzione ispirato ad alcune vicende reali dei detenuti. Dissi: incontriamoli, conosciamoli, questi detenuti. Ecco, in quel momento ho capito che loro erano il film! Perché io ero interessato a capire come una persona, prima, possa diventare un criminale, per quali motivazioni si possa giungere a commettere dei crimini, come ci si venga a trovare in determinate situazioni e poi capire come, attraverso questa trasformazione in carcere, fosse stato possibile diventare attori e, per qualcuno di loro, arrivare a vincere il Festival di Berlino col film dei Taviani “Cesare deve morire”! Quindi il mio documentario nasce da queste curiosità, dall’incontro con questi personaggi, e poi io, essendo un ex giornalista, ho una curiosità innata. Il produttore mi ha dato via libera e ho girato qualcosa come 600 ore di materiale. Ero interessato alla ricerca della verità, alla messa a nudo delle persone. Ora è in fase di montaggio, sono soddisfatto del mio lavoro. Una cosa che è successa nel frattempo e che mi onora, è che gli stessi detenuti mi hanno chiesto di dirigerli nell’opera teatrale che hai appena visto (La fine all’alba, ndr). Per me è la prima esperienza come regia teatrale e l’abbiamo presentata qui a Roma in anteprima nazionale.

locandina-LaFineAllAlba-webSinceramente, il tuo impatto dal punto di vista dell’uomo, prima che del regista, con queste storie, con queste persone colpevoli di gravi reati, che effetto ha avuto sulla tua vita e sulla tua professione? Ti ha cambiato dei parametri che consideravi acquisiti?

Ma direi di no, sai? Nella mia vita ho conosciuto persone di tutti i tipi, cercando di trovare il bello e il brutto in tutti quelli che incontro. Ho incontrato gente anche peggiore, ma è libera! Quindi, aldilà del giudizio morale sulle azioni che hanno compiuto, che non posso certamente accettare reputandomi una persona onesta, con loro si è stabilito un contatto e anche un rispetto reciproco e con alcuni sta nascendo anche un’amicizia. Considera anche che, per la quasi totalità, stiamo parlando di ex criminali, tra di loro ce ne sono alcuni che hanno trascorso in carcere più di trenta anni e che sono considerati anche un fiore all’occhiello del sistema carcerario italiano. Alcuni sono un simbolo di redenzione del carcerato, li portano a parlare coi giovani nelle scuole, nei quartieri come Scampia a Napoli o allo Zen di Palermo. Un messaggio positivo da dare a chi vive ai margini della legalità.

Hai lavorato molto per la televisione. Questa è la tua prima regia teatrale. Come hai concepito dal punto di vista registico questo lavoro… le difficoltà, il taglio che gli hai dato?

Come faccio sempre, sono partito dal testo e poi sulla sua visualizzazione. Tieni presente che tutti gli spettacoli precedenti della Compagnia, erano basati su monologhi. Devi considerare che quasi tutti loro vengono dall’isolamento, gente di 41 bis, carcere duro. Ho, tra i miei, due condannati per mafia, due per camorra di alto livello, uno per spaccio internazionale, uno tra i fondatori della banda della Magliana. Stiamo parlando di persone che passavano molto tempo da sole, non più abituate a interagire con gli altri. Quindi si preparavano il proprio monologo e lo recitavano, ma non è un tipo di teatro che mi interessa. Ne abbiamo parlato con Antonio Turco (autore del testo, ndr) e lui ha strutturato questo ultimo spettacolo sull’interazione, che è quello che a me piace. Anche quando realizzo le sitcom o il cinema, mi piace molto l’interazione, l’intreccio, i dialoghi interallacciati… sono un maestro del “casino”. Mi piace uno stile di recitazione più realistico, sia rispetto a ciò che viene proposto in tv che in teatro. Quindi, ho tentato di farli interagire tra di loro. Il risultato me lo deve dire il pubblico, io tento di fare questo. Cercare di far fare qualcosa di diverso a detenuti attori, abituati a lavorare in altro modo, questo è il mio intento. Se dicessi che è facile, direi una grande bugia!

Ci credi nella funzione sociale, in questo ambito così particolare, del teatro come lo ha definito Turco: “strumento di ricostruzione personale”?

Sì, ci credo molto! Io credo che al criminale debba essere data l’opportunità di redenzione. Non credo in un carcere senza speranza. Ci sono reclusi con quindici ergastoli! Per tanti di loro è un nuovo scopo nella loro vita. Alcuni vanno nei posti più degradati e difficili a consigliare i ragazzi di non fare gli stessi sbagli loro, che portano alla galera o alla morte, difendono la valenza culturale di ciò che fanno. Quasi tutti i componenti della Compagnia ci credono veramente! Sono testardi come muli, ma ci credono, a volte più di tanti attori professionisti con cui ho lavorato. Io sono un appassionato, se vuoi anche focoso, e mi piace trovare un’energia positiva in determinati ambiti. Vederla poi in un posto dove solitamente non c’è speranza e dove il più delle volte chi entra peggiora e constatare che delle persone sono migliorate attraverso questa attività, che si sono aperte e sono costrette a interagire tra di loro, a collaborare positivamente, io la vedo come una redenzione, un’autentica ricostruzione di vita!

Un momento de "la fine all'alba"
Una scena de “la fine all’alba”

Parlando di questo evento, ho riscontrato molto scetticismo nelle persone comuni, contrarietà vera e propria, per qualcosa che viene vista come un premio a chi ha rovinato tante altre vite..come ti poni di fronte a queste considerazioni?

C’è una doppia risposta che ti posso dare. La prima è che nessuno ha visto questo spettacolo, dato che siamo in scena da due giorni e che, se lo vedessero, capirebbero che non c’è alcuna giustificazione nei loro confronti. Ma questo è lo sport tipico degli italiani, parlare senza conoscere. Io sono contrario a definirli “i poveri detenuti”, tutt’altro. Ti dico che tra quelli che dirigo, nessuno è pentito, nel senso che nessuno ha avuto qualche beneficio derivante da collaborazioni. Si sono presi le loro condanne pesanti senza nessuno sconto di pena. Hanno un loro codice e lo rispettano. La seconda è che la logica della spettacolarizzazione del dolore per cui è diventato di moda parlare del carcere, ha fatto sì che si parlasse di questo solo per speculazioni politiche e non per un reale interesse sulle condizioni dei detenuti. Questo ha avallato un certo tipo di prodotto che ha biecamente sfruttato la questione per proporre il carcerato come “povero carcerato”. No, io sono per la certezza della pena, ma anche per l’opportunità della redenzione. Hai sbagliato, paghi, ma questo deve valere per tutti, per il delinquente comune, per il mafioso, per il politico. Il mio lavoro va in questa direzione.

Lavoro che la Compagnia Stabile Assai ha portato avanti in silenzio per anni…

Dal 1981! Anche qui, voglio dire… il dibattito su questi argomenti nasce con Cesare deve morire, due anni fa. Il problema dell’indulto sorge con i grossi processi di politici, Parmalat, eccetera… ci si ricorda allora che le carceri sono sovraffollate. Questi della Compagnia sono trenta anni che stanno lì a recitare. E’ stata la prima Compagnia a uscire da un carcere, nel 1981. Solo per farti capire che tipo di lavoro di integrazione hanno dovuto fare, ti dico che la Compagnia originaria, aveva nei membri fondatori brigatisti rossi, terroristi dei Nar, camorra, mafia, banda della Magliana e delinquenti comuni, tutti nella stessa compagnia! A volte, scherzando con loro, gli dico che una volta erano tutte organizzazioni criminali diverse e che ora fanno tutti parte della stessa banda con me come capo, quindi peggio per loro! Pensa solo al lavoro che deve aver fatto un terrorista nero e uno rosso per poter lavorare insieme! Quello che stasera interpretava la morte è uno dei fondatori delle BR, insieme a Curcio, tre evasioni a carico. Ora è un pittore affermato, ha scontato la pena, alla sua ultima mostra c’erano D’Alema e la Boldrini. Secondo te, ha fatto un percorso di redenzione valido o è un pericolo pubblico?

Francesco, l’arte può salvare dall’abbrutimento questa società, che è già abbrutita anche senza entrare in un campo come quello del carcere. Pensi che il film di Taviani, opere teatrali come questa che stai dirigendo in questi giorni, possano rappresentare una ciambella di salvataggio?

Da secoli, l’arte è la valvola di sfogo dei malumori e la molla dello sviluppo successivo della razza umana! L’arte è legata alla scienza, se vai a vedere i più grandi artisti nei secoli erano anche scienziati. L’umanità è potuta progredire proprio per questo. Il problema è che adesso stiamo in riflusso. C’è un appiattimento verso la mediocrità, perché le persone che stanno nelle posizioni dirigenziali, a qualsiasi livello, sono mediocri. Non solo in Italia. Quando le posizioni di comando, in tutti i settori, non solo in quello artistico, sono in mano ai mediocri e questi regnano sovrani, è logico che vengono a mancare gli stimoli.

Una scena de "La fine all'alba"
Una scena de “La fine all’alba”

 

Sono curiosissimo di vedere il tuo documentario a settembre…

Consideralo come un prequel di “Cesare deve morire”. L’ho girato mentre stava uscendo il film dei Taviani e speravo che fosse diverso. In effetti, il mio è un documentario biografico. Sono le storie di sei personaggi della Compagnia, sei vite che vengono analizzate tramite i loro racconti sul percorso che hanno compiuto, da criminali, il loro rapporto coi familiari, l’incontro con l’arte, e come sono arrivati al pluripremiato film. Quello, Cesare, è uno spettacolo, è la ripresa di un testo classico recitato con quegli attori nell’ambiente carcerario. Il mio no, è un documentario sulle loro vite. Quello che hai appena visto (La fine all’alba – ndr) è uno spettacolo teatrale tout-court.

Parafrasando il titolo dell’opera teatrale appena vista… cosa vedi all’alba?

Non vedo la fine, ma un nuovo inizio per loro. Alcuni sono bravi davvero e meritano di crescere, se solo si fidassero un po’ di più… però bisogna anche capire che è difficile, per chi è stato trenta, quaranta anni in un carcere, aprirsi a un rapporto di fiducia. Per questo ha una valenza positiva il teatro per loro, perché alcuni si stanno riaprendo alla vita, a fidarsi dell’altro. E’ un lavoro duro, ma io cerco di spronarli e ti assicuro che qualcuno potrebbe continuare anche ad ottimi livelli e te lo dice uno che di solito non è tenero con gli attori.

Grazie Francesco, per la tua disponibilità verso Cultura e Culture…

Grazie a voi. La cultura è l’ultima arma rimasta alle persone intelligenti per poter tentare di cambiare le cose. Non si cambiano con mosse violente o drastiche, ma possono cambiare se rimettiamo in moto il cervello e la cultura. E’  l’ultima speranza!

Paolo Leone

 

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