Judy: recensione del film sulla Garland

Judy Garland continua ad esercitare un certo fascino. Così il Cinema si è rimpossessato del suo mito facendolo rivivere in Renée Zellweger. L’attrice, infatti, ci ha regalato una delle interpretazioni più strabilianti della sua carriera. Scopri di più su Judy nella recensione.

Judy: recensione (podcast in calce)

Judy è stata un’icona della musica e della Settima Arte, tanto che il filosofo e psichiatra James Hillman le dedica un intero paragrafo del libro ‘Il codice dell’anima’ citando anche il critico Clifton Fadiman che così la descrisse: «Non smettevano mai di richiamarla sul palco, non come un’artista che avesse fatto un bello spettacolo ma come qualcuno che ci avesse offerto la salvezza. Mentre ascoltavamo la sua voce, mentre la contemplavamo nel suo costume sbrindellato di vagabonda ci scordavano chi era, anzi chi eravamo noi. Come tutti i bravi clown non era più ne maschio né femmina, né giovane né vecchia, né bella né brutta».

Judy recensione

Judy era «la voce dei comuni sentimenti», come si evince dal film di Rupert Goold che, con la sua macchina da presa, racconta l’ultimo anno di vita dell’attrice e cantante statunitense.

Judy e le sue ultime esibizioni…

Siamo nell’inverno del 1968. Judy è provata dai debiti e deve lasciare malvolentieri i due figli con l’ex marito, per esibirsi a Londra sul palco del ‘The Talk of the Town’. Insonne, con il volto stravolto dagli psicofarmaci e dall’alcol, la star alterna performance meravigliose ad esibizioni imbarazzanti.

Nel film questi sbalzi emotivi sono attribuiti alla pressione psicofisica imposta alle star dal sistema hollywoodiano. Infatti, con alcuni flashback – che ci portano indietro nel tempo sul set de Il mago di Oz –  conosciamo Frances (questo il vero nome della Garland), quando era un’adolescente che desiderava mangiare un pezzo di torta o un panino appetitoso, fare una semplice nuotata e divertirsi un po’. Tutto questo le veniva costantemente vietato da chi dettava le regole dello showbiz.

A Judy, secondo la visione di Rupert Goold e dello sceneggiatore Tom Edge, fu rubata l’infanzia. E quindi sotto le sembianze della donna – che nel 1968 si esibì a Londra – si nascondeva la bambina che reclamava con forza il suo spazio e non voleva essere vessata dalle regole. Una donna che ambiva alla maternità, al cibo, a una dormita rigenerante.

Eppure il talento, si sa, vuole esprimersi, a qualsiasi costo! Nella pellicola vediamo che la cantante non può fare a meno del palcoscenico dove, quando è in sé, compie una straordinaria metamorfosi. Il film ci mostra, quindi, come l’arte venga compressa dalla macchina dei soldi che, per un quattrino in più, rende queste persone dei morti viventi.

Solitudine e desiderio ‘mancato’ di ascesa

Hillman avrebbe detto che le cadute di Judy non erano altro che dei richiami dell’anima che, nel tentativo di discendere, cioè di crescere e di essere parte del mondo, la tirava sempre più giù, verso gli abissi. La Garland voleva affetto e pretendeva di dare una dimensione terrena, quindi tangibile ed istituzionalizzata, ai suoi amanti. Lo fece con cinque matrimoni e tre figli.

Il film evidenzia, inoltre, con una forte tensione drammatica, come una vita o meglio una parte di essa (la tappa finale) venga alienata da un perenne stato di solitudine che non viene visto, né ascoltato, né accettato. Il sistema, difatti, è troppo impegnato a esigere da queste persone (sì, sono delle persone) che siano sempre al top con l’alibi che sono fortunati e non hanno il diritto di soffrire.

Il film, però, esce da questa astrusa convinzione creando empatia tra chi guarda e Judy mediante dei primi piani che ce la avvicinano sempre di più rendendola diva solo sul palco e trasformandola, fuori dalla scena, in una di noi. Il lungometraggio – che è l’adattamento cinematografico del musical End of the Rainbow di Peter Quilter – tocca più corde emotive con incisività. Da non perdere. (Marica Movie and Books)

Judy: recensione. Ecco il podcast

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