Al centro del documentario “Cobain: Montage of Heck”, al cinema il 28 e il 29 aprile, la vita di Kurt Cobain, leader dei Nirvana.
Ci sono due modi differenti di vivere i Nirvana, uno è quello di chi quegli anni li ha vissuti, ha sperimentato l’esplosione di una band che con un solo album (Nevermind) ha rotto tutti gli schemi e si è imposta a livello internazionale. E poi c’è quello di chi li ha conosciuti quando tutto era già finito, quando Kurt Cobain era già sottoterra e il suo mito svettava su tutti gli altri. Entrambi i modi hanno in comune due sentimenti: amore e rimpianto.
La verità è che scrivere un articolo su di lui può essere terrificante e lo è ancora di più se in testa hai le immagini “Cobain: Montage of Heck”, il documentario di Brett Morgen proiettato nelle sale italiane il 28 e 29 aprile. Un’opera egregia, intima, tenera e amara allo stesso tempo. Al suo interno ritrovi quello che non ti aspetti. Ritrovi un bambino sorridere felice di fronte alla super 8 del padre, pronto a conquistare il mondo con la sua energia e la sua bellezza; ritrovi un adolescente complicato e in fuga da tutto: da se stesso, dalla scuola, dal mondo, da una famiglia che non lo vuole, che non lo accetta e dalla quale lui vorrebbe disperatamente ricevere amore. Ritrovi un ragazzo che sorride solo quando ha una chitarra in mano, un genio fragile che nonostante la paura di essere umiliato e deriso riesce a esprimersi tramite la sua musica perché è l’unico modo che conosce per farlo. Ritrovi la “fottuta rockstar” che sale sul palco e infiamma migliaia di persone con un atteggiamento ribelle talmente forte e ostentato che ti risulta impossibile non considerarlo una maschera, una barriera protettiva dietro la quale si nasconde un’anima pronta a rompersi da un momento all’altro. Così è stato, Kurt si è semplicemente rotto in un martedì di aprile, diventando “un perfetto eroe rock’n’roll”, per utilizzare le sue stesse parole. Ma si sbagliava, perché probabilmente il frontman dei Nirvana sarebbe diventato una leggenda anche se non fosse entrato a forza in quel maledetto Club dei 27, anche se fosse invecchiato guardando crescere la figlia Francis Bean, co-produttrice del film. Non aveva bisogno di morire in quel modo per essere ricordato, bastava la sua musica.
“Montage of heck” è un pugno allo stomaco. Il docu-film può essere suddiviso in due parti: quello che sapevamo già e quello che non avevamo mai visto e che ci fa capire un po’ di più, che dà una risposta a quei “perché” che tutti avevamo in testa attraverso video inediti, fotografie, disegni, fumetti, diari, interviste ad amici e familiari. In sottofondo e in primo piano le canzoni dei Nirvana, a volte riarrangiate in versione carillon (con un “All Apologies” quasi commovente) a volte colme d’adrenalina e forti come le abbiamo sempre ascoltate.
A lasciare l’amaro in bocca non solo il racconto di un bambino messo sotto Ritalin perché troppo vivace e quindi molesto, ma anche il modo in cui questo bambino viene descritto da chi dovrebbe amarlo più di tutti. Una madre che in certi frangenti appare fredda, impegnata a farsi riprendere dal profilo migliore, come se stesse parlando del figlio di qualcun’altra; un padre che gioca nervosamente con il bracciolo del divano senza riuscire a spiegare chi fosse veramente suo figlio, una matrigna che ammette candidamente di averlo “dovuto” cacciare di casa. E poi la sorella, la prima fidanzata fino ad arrivare a lei, quella Courtney Love che ancora oggi suscita sentimenti contrastanti. Chi continua a odiarla e a darle la colpa e chi la osserva con perplessità. Mentre racconta della sua vita con Kurt Cobain sembra talmente assente a se stessa, talmente smaniosa di apparire da rendere difficile qualsiasi tipo di empatia. Ci amavamo, ci drogavamo e stop, non c’è altro da dire. L’unico a sembrare vero, sincero, ancora tormentato è un Krist Novoselic in difficoltà nel raccontare le scelte sbagliate di un amico che aveva deciso di distruggersi con le sue stesse mani, un ragazzo che lui non è riuscito ad aiutare nonostante “col senno di poi i segnali fossero chiari”. Pesa ed appare piuttosto emblematico il silenzio di Dave Grohl, l’unico a non esserci, a non aver detto neanche una parola. E ascoltando quanto detto da tutti gli altri (Novoselic escluso), risulta difficile non pensare che forse sia stato lui a fare la scelta giusta.
Dalle interviste si passa ai video privati della coppia Kurt-Courtney e della piccola Francis. L’amore negli occhi del padre è palese, così come il fatto che fosse strafatto per la maggior parte del tempo. Guardando il documentario su Cobain ci si sente degli intrusi, si ha la sensazione di violare l’intimità di un uomo che probabilmente non avrebbe voluto che quei video fossero diffusi (pensiero totalmente opposto per quel che riguarda la moglie, talmente ossessionata dalle sue manie di protagonismo, da risultare molesta). Si prova tanto affetto nei confronti di un ragazzo che si vede sempre più magro, più fragile, più “spento”.
Il documentario si chiude con le immagini dell’MTV Unplugged in New York del 1993, un disco che chiunque ami i Nirvana conosce a memoria. E forse è giusto così, perché dopo essere entrati talmente tanto nella sua intimità, dopo aver scavato talmente a fondo, sembra opportuno lasciagli almeno la “solitudine” della sua tragica morte. Mentre con la sua voce straziata e graffiata e la sua chitarra in mano Kurt Cobain canta “I shiver the whole night through”, quel che ti resta di questo docufilm da 132 minuti è una tenerezza immensa e la sensazione di aver dato una risposta al “perché” che assilla la mente dei fan dei Nirvana dal 5 aprile 1994.
Trailer
Vittoria Patanè