L’Immortale: recensione – Si dice che i nati dopo il 23 novembre del 1980 in Campania (e nel mio caso in Irpinia) percepiscano una perenne sensazione di instabilità, come se la terra stesse per sprofondare da un momento all’altro sotto i loro piedi. Questo vale ancor di più per il piccolo Ciro Di Marzio che, – come vediamo nel film L’immortale – rimasto orfano, cerca una dimensione familiare e una parvenza di sicurezza in chi gli è più vicino.
Siamo però a Napoli dove il sisma segna uno spartiacque tra ciò che c’era prima e ciò che verrà dopo mescolando le carte e creando una criminalità sempre più organizzata. Sulle rovine si tenta di costruire quindi il nuovo mantenendo però la mentalità di partenza. In realtà Napoli è instabile sin dalle radici anche se sembra immobile e uguale nelle sue molteplici contraddizioni. Sovrastata dal vulcano muto, questa città comunque è mantenuta in vita dal fuoco che surriscalda gli animi dei suoi abitanti. Di conseguenza per un bambino orfano le speranze di non soccombere in un contesto del genere sono poche. Il piccolo Ciro non sceglie da che parte stare, non sa nemmeno che esiste un’altra realtà e diventa così uno scugnizzo che somiglia molto ai sciuscià e ai ladri di biciclette di Vittorio De Sica.
L’Immortale: recensione. Marco D’Amore non sbaglia un colpo
La macchina da presa di Marco D’Amore ne L’Immortale non sbaglia un colpo e ci consegna tra le braccia un personaggio cupo e silenzioso che forse desidera ancora quella famiglia di cui la vita lo ha privato. Dopo essere scampato alla morte ancora una volta, Ciro vola in Lettonia dove però non prova a metter radici perché sa che per lui non esiste ricostruzione. Dominato da un’energia fortemente distruttiva, che gli impedisce di contemplare ciò che costruisce, L’immortale ripensa a quando era bambino e ci rende partecipi di fatti che hanno condizionato in negativo la sua esistenza: sulle note di Chiara (la canzone di Nino D’Angelo, nda) e una Napoli che ha appena conquistato lo scudetto, il piccolo Ciro sogna l’amore e le cose belle.
Campi lunghi e medi definiscono poi l’ambientazione presente. Siamo nelle terre del Nord-Est dove il sole non tramonta quasi mai eppure, contrariamente a quel che si pensa, non si vede ghiaccio. Non è che il cuore di Ciro scalpiti ancora? O forse il contesto è grigio perché non esiste redenzione? Nel film, infatti, non c’è spazio per i colori né per il sole né per il bianco candido della neve che evocherebbe la cancellazione del male. Qui siamo negli inferi più profondi. Ne L’Immortale è il male che si racconta senza autocompiacersi né celebrarsi. Ciro non è un personaggio fumettistico alla Joker, né un antieroe. Lui è un boss della Camorra in carne ed ossa, e sappiamo che da qualche parte un ipotetico Di Marzio banchetta prendendo a schiaffi la Legalità. Tutto questo inquieta e al tempo stesso rende L’Immortale un film accattivante, unico nel suo genere.
«Ogni persona è segnata da eventi che ne condizionano le scelte sino all’ultimo respiro…»
Marco D’Amore non giustifica le malefatte del suo personaggio che come anticipato non è un antieroe perché nel film non esistono eroi. Il messaggio è chiaro, dopotutto: ogni persona è segnata da eventi che ne condizionano le scelte sino all’ultimo respiro. Le linee narrative di questa pellicola hanno poi uno spessore internazionale: Ciro usa le lotte intestine dell’Europa dell’Est per riacquisire (suo malgrado?) il potere perduto. Ma cosa lo anima? A suo dire niente! Per me questo personaggio invece è mosso da un bisogno innato di supremazia e non dalla sete di vendetta né da una sorta di giustizia privata. Il suo mondo si è sgretolato 39 anni prima portandosi via la speranza e ogni possibilità di conoscere il Bene che in questo lungometraggio, come nella serie televisa, non si intravede neppure. E allora cosa aggiungere ancora, se non che L’immortale mi ha catturata, letteralmente!? (Marica Movie and Books)