L’allestimento de “La Locandiera” al Teatro Carlo Gesualdo di Avellino il 21 e il 22 dicembre mi ha dato l’occasione di riprendere e approfondire una delle commedie più significative della Letteratura Teatrale Italiana. Scritta nel 1752 da Carlo Goldoni, “La Locandiera” fu messa in scena al Teatro Sant’Angelo di Venezia nella stagione carnevalesca 1752-1753.
Lo spazio scenico è quello della locanda, nella quale approdano avventori di classi sociali differenti. Ma la locanda è anche il posto dove pubblico e privato, finzione e realtà, maschera e volto s’intrecciano muovendosi su tre binari: psicologico, sociale e comico.
La protagonista di questa commedia è Mirandolina, l’avvenente locandiera interpretata al Carlo Gesualdo da Nancy Brilli, che, diretta da Giuseppe Marini, è brava nel calarsi nei panni di un personaggio tuttora attuale. Siamo a Firenze. La borghese Mirandolina è una donna avvenente, dedita agli affari, che però non vuole sposarsi perché teme di perdere la propria libertà economica, sebbene sia corteggiata da due nobili, il marchese di Forlipopoli e il Conte di Albafiorita, e dal suo fidato cameriere Fabrizio.
Ma, quando nella locanda approda il Cavaliere di Ripafratta, noto per la sua misoginia, la bella locandiera fa di tutto per far innamorare l’uomo, innescando un perverso gioco che la porta a ritornare sui suoi passi perché teme per la sua reputazione di donna e per la locanda.
Sulla scena anche due personaggi comici, Ortensia e Dejanira.
Due figure che contrappongono il vecchio Teatro, considerato falso, all’innovazione goldoniana. Ne “La Locandiera” vengono dunque affrontati il tema del matrimonio e il tema sociale mediante il personaggio controverso di Mirandolina.
Secondo il critico Mario Baratto, a guardare più a fondo nella psicologia della protagonista, si potrebbe scoprire in lei una frigidità intellettuale, il puntiglio di un Don Giovanni in gonnella, più teso alla conquista che interessato al possesso; o magari sotto il gioco della galanteria un’avversione più profonda, l’indizio di un sentimento di paura o d’altro.
Mirandolina si prende gioco degli uomini forse perché avverte un senso d’inferiorità sociale che sfoga nei confronti del sottoposto Fabrizio. Perché a lei non interessa l’amore bensì la pratica sociale in modo da conservare il suo status di locandiera. Significative le parole di Mirandolina, pronunciate proprio nel finale, quando sceglie di sposare Fabrizio, senza amarlo: “Queste espressioni mi saran care, nei limiti della convenienza e dell’onestà. Cambiando stato. Voglio cambiar costume; e loro signori ancor profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, persino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera”.
Nella versione di Marini colpiscono anche le scenografie di Alessandro Chiti, che sono a specchi e rigide, proprio per sottolineare la rigidità mentale della società settecentesca e una visione variegata della realtà. Sul palco con l’attrice romana Fabio Busotti, Claudio Castrogiovanni, Maximilian Nisi e Andrea Paolotti.