Quando nel 2017 è uscito il film ‘Noi siamo tutto’ (Everything in inglese) mi è stato difficile entrare in sintonia con i disagi di un’adolescente che si ritrova chiusa in casa perché il suo sistema immunitario non è in grado di uccidere i microrganismi anche più innocui. E poi ti spiego perché! Affetta da una malattia rara, Madeline (Amandla Stenberg) ha trascorso i suoi 17 anni in uno spazio confortevole, con un arredamento minimalista, e dei software che le consentono di fare in maniera virtuale esperienze reali che i suoi coetanei sani invece fanno con tutto il corpo usando ogni senso, non solo la vista.
Le cose per la protagonista di ‘Noi siamo tutto’ cambiano quando si innamora. Olly (Nick Robinson), il nuovo vicino, l’attrae. I due ragazzi cominciano ad avere una relazione molto platonica fino a quando Madeline dovrà scegliere tra momenti indimenticabili da trascorrere col suo amato corpo a corpo, viso a viso, e una quotidianità triste e logorante che però le garantisce la sopravvivenza.
La pellicola, che è diretta da Stella Meghie, appartiene al genere sentimentale e, dal punto di vista cinematografico e narrativo, non racconta una storia del tutto innovativa. Il tema della malattia d’altra parte, soprattutto in età adolescenziale, è infatti ridondante nel cinema. Basti pensare a film come Ragazze interrotte (1999), Tutta colpa delle stelle (2014), Io prima di te (2016), Cosa mi lasci di te (2020), Quello che tu non vedi (2020) o anche pellicole in cui la malattia si presenta in età adulta quali Non è mai troppo tardi (2007) o La teoria del tutto (2014). L’elenco è infinito.
Ciò che differenzia, dal punto di vista tematico, il film oggetto di questa recensione da quelli elencati è l’impossibilità di uno dei protagonisti di condurre un’esistenza normale fuori dalle pareti domestiche proprio come accade in un lungometraggio uscito nel 2018 che si intitola Il sole a mezzanotte. Il plot è il seguente: c’è un personaggio principale, in genere una ragazza, che, a causa di una malattia rara, non può sperimentare la vita in tutte le sue peculiarità e poi ci sono dei genitori che impediscono al figlio o alla figlia di uscire per paura della morte. Ma le cose cambiano quando arriva l’amore che conferisce al personaggio principale quel coraggio necessario per spiccare finalmente il volo, staccandosi così dal nido genitoriale, a costo anche della vita stessa.
Questi film lasciano spazio alle seguenti domande: che senso ha condurre un’esistenza in sicurezza se poi la qualità della vita è scadente? La paura di morire non nasconde in realtà la paura di vivere appieno con tutti i sensi? E cosa significa vivere per davvero? Come può essere metabolizzato il lutto?
Tornando a ciò che ho scritto all’inizio questa recensione, posso dire che oggi guarderei questo film con occhi molto diversi. La pandemia in realtà ci ha profondamente cambiati: ci siamo chiusi in casa, giustamente, per paura di infettarci, le nostre esistenze sono state messe in standby per un po’ di tempo, abbiamo avuto terrore dell’altro e ci siamo nascosti dietro presidi di protezione.
Dal punto di vista simbolico, è come se l’essere umano si fosse chiuso a riccio dinnanzi alla paura di morire e di perdere i cari. Ed è un paradosso se pensiamo che nella nostra società la morte, con i suoi rituali, è qualcosa di innominabile, qualcosa di cui sbarazzarsi subito forse perché in un mondo globale – che segue le logiche ferree del mercato, dove ogni cosa ha un prezzo – la consapevolezza che tutto sia effimero ci renderebbe meno consumatori frivoli e compulsivi. Di conseguenza l’idea di dover morire un giorno ci farebbe vedere le cose della vita in modo più profondo, più spirituale ed autentico. Forse. Chissà?! Non so.
Comunque, credo, valga davvero la pena di vedere un film come ‘Noi siamo tutto’ per i suddetti motivi e per le domande che scaturisce, per le quali purtroppo non ci sono risposte univoche né confezionate. di Maria Ianniciello