Quando il pubblico applaude, c’è sempre da chiedersi quale sia la motivazione del clamore. Bisogna soprattutto domandarsi se l’opera – che è stata mostrata – ha assuefatto gli spettatori o viceversa li ha liberati. Nel caso del Pinocchio di Garrone la domanda si amplia perché ad apprezzare, in una sala gremita, sono stati soprattutto i bambini, sotto il mio sguardo incuriosito. Quindi, dei più piccoli bisogna fidarsi. Quasi sempre.
Il nuovo film di Matteo Garrone (la sceneggiatura è stata scritta con Massimo Ceccherini) restituisce al romanzo di Carlo Collodi quella magia che lo ha reso celebre cogliendone le varie sfumature e riadattandole ai nostri tempi con qualche micro-invettiva contro la giustizia italiana e le contraddizioni della società contemporanea.
Pinocchio di Garrone: recensione del film
Il Pinocchio di Garrone è alla continua ricerca dell’anima perduta, è un burattino che non appena viene costruito scappa per ritrovare una parte di sé attraverso una serie di eventi catartici che lo renderanno un bambino in carne ed ossa.
Pinocchio (Federico Ielapi) sceglie così la fuga, lasciando da solo Geppetto, un uomo povero ma con una grande dignità. Il personaggio, incarnato da Roberto Benigni, è il padre che, dopo aver creato la sua opera, deve farla muovere nel mondo in libertà ed autonomia senza attaccamento. Geppetto è anche il genitore che vede nel figlio la propria rinascita ed è inoltre il creatore che contempla la propria creazione. E` un moderno Michelangelo che libera nel pezzo di legno, regalatogli da Mastro Ciliegia (Paolo Graziosi), la creatura immaginata. E lo fa nel buio della notte, quando tutti dormono, quando regna l’incanto, quando siamo in una dimensione onirica e perdiamo il controllo.
Garrone, quindi, dà molta importanza a Mastro Geppetto che non appare goffo, né trasuda di già visto perché è unico. Come unici sono tutti i personaggi: dal grillo parlante (Davide Marotta), al mangiafuoco (Gigi Proietti), dal gatto (Rocco Papaleo) e la volpe (Massimo Ceccherini) al tonno (Maurizio Lombardi), dal giudice (Teco Celio) – che condanna Pinocchio perché innocente – alla fata (Marine Vacth).
I personaggi? Un ibrido, a metà strada tra uomini e bestie
Il regista sceglie di rendere molti dei suoi personaggi un ibrido, a metà strada tra uomini e bestie, nell’ottica della perenne trasformazione, a cui tutti siamo indistintamente chiamati. Ci porta poi in un tempo indefinito ma lontano quando le persone si svegliavano al canto del gallo ed erano in linea con i cicli della natura; un’epoca in cui si aveva la percezione che le ore scorressero più lentamente, come lenta è la lumaca (Maria Pina Timo) che, per me, è uno dei personaggi più suggestivi del film.
Garrone, tuttavia, con qualche rifacimento, lascia intatto il senso del romanzo, per ridare potere alla Conoscenza che non fa rima con nozionismo. Di conseguenza Pinocchio, con l’amico Lucignolo (Alessio Di Domenicantonio), nel paese dei Balocchi diventa un ciuchino ed è costretto a subire molte umiliazioni fino a quando in prossimità dell’ora del trapasso non viene liberato dall’acqua per ricongiungersi con il babbo nelle viscere del pesce-cane, ovvero nella notte più buia.
Un Pinocchio poco spensierato…
Con una serie di buone azioni, dopo tante monellerie, il burattino viene infine trasformato in bambino dalla fata. Ma ciò che manca a questo Pinocchio è la spensieratezza. Il personaggio di Garrone non si diverte mai abbastanza, sembra sottotono e anche quando compie le monellerie più assurde ha sempre una vena di tristezza negli occhi. Cosa che non traspare nel romanzo né nelle varie trasposizione cinematografiche. Questo burattino inquieta e solo quando acquisisce sembianze umane ritrova davvero il sorriso e l’espressività.
La pellicola del regista partenopeo dal punto di vista stilistico, poi, sembra essere un dipinto di Caravaggio per quanto è suggestiva e al contempo realistica, con i campi lunghi e medi, con gli intensi primi piani, con i giochi di luce. Insomma, il Pinocchio di Garrone è un film da applausi. (Marica Movie and Books)