Mondocane inizia con un pesante crocifisso ritrovato nelle acque non più cristalline di una Taranto senza speranza e senza religione, dove il tempo è scalfito dalla violenza e dall’impossibilità di redimersi tramite l’amore e l’amicizia.
La reliquia religiosa appartiene ad un’altra era, tanto che chi la trova non né conosce l’uso né il significato perché nato troppo tardi, poco dopo che il filo spinato avvolgesse la città vecchia consegnandola ai diseredati, ai poveri e ai delinquenti che si dividono il territorio con i proiettili e con le spranghe.
I protagonisti di questo Mondocane sono due adolescenti, l’uno biondo e sano, l’altro moro e malato di epilessia. Pietro (Dennis Protopapa) e Christian (Giulio Soprano) condividono tutto, dai sogni alle aspettative, dalle speranze alle delusioni, e si muovono con fare audace e con estrema curiosità in una società dove non c’è spazio per l’infanzia né per passi falsi e imprudenze. Intanto scopriamo che Roma non è più capitale d’Italia e che tante cose sono cambiate.
Mentre a Taranto le Formiche, guidate da Testacalda (Alessandro Borghi), rubano ai ricchi della Taranto nuova (di cui vediamo molto poco, solo qualche immagine patinata) per dare ai poveri usando metodi camorristici e reclutando bambini con il ricatto, la paura e il lavaggio del cervello.
Pietro (denominato Mondocane) e Christian (chiamato Pisciasotto) sognano da sempre di essere reclutati dalla temuta gang ma, quando ci riusciranno, la loro amicizia sarà messa a dura prova dall’ambizione di uno dei due. Riuscirà il loro legame a mantenersi saldo? Il film ruota intorno a questo punto di domanda, amplificandolo e dando più spunti di riflessioni sulla caducità dell’esistenza e sul desiderio di rivalsa che può far decadere anche l’amicizia più salda e duratura.
La macchina da presa segue con fare incalzante e momenti di grande pathos non solo i due piccoli protagonisti ma anche gli altri personaggi (la poliziotta, interpretata da Barbara Ronchi e Testacalda in primis) che però sembrano come sospesi, perché la loro storia è solo abbozzata, il loro destino solo accennato, le loro ragioni non spiegate appieno.
Alessandro Celli, alla sua prima esperienza di regista, comunque gira e scrive con Antonio Leotti un’opera interessante e coinvolgente che strizza l’occhio ai film di formazione e allo sci-fi anglosassone, con rimandi a Mad Max: Fury Road e ad altri lungometraggi post apocalittici, conservando al contempo le atmosfere e le tonalità del cinema italiano con una fotografia dal grande impatto visivo.
Le scene sono state girate a Taranto. Il film è stato presentato alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, nell’ambito della Settimana della Critica, e annovera tra i produttori Matteo Rovere.
Recensione scritta da Maria Ianniciello, segui l’autrice su Instagram