Rifkin’s Festival è al cinema dal 6 maggio, Di seguito la recensione.
Può una giornalista culturale che si occupa anche di pari opportunità e quindi di femminismo, scrivere una recensione su un film di Woody Allen? Il cineasta newyorkese, dopo la vicenda (chiusasi trent’anni fa ma riaperta dal movimento Me Too) con Mia Farrow che lo accusò di abuso sessuale sulla loro figlia adottiva Dylan Farrow, sembra essere stato messo all’indice, soprattutto negli Stati Uniti.
Allen è finito in una sorta di elenco fittizio e ideale, dove sono collocati gli ipotetici ‘cattivi’ ancora prima del verdetto della giustizia e spesso bypassando anche quest’ultimo, qualora sia positivo per l’imputato. E allora tanto per rispondere alla domanda iniziale, certo che una giornalista, che tratta anche i temi del femminismo, può scrivere su un’opera d’arte di un regista controverso, ma dall’inestimabile talento, come Allen, perché tutti i grandi artisti, anche del passato, sono stati giudicati dalla critica solo per ciò che realizzavano. Caravaggio, per esempio, non era uno stinco di Santo (e tanti altri come lui), eppure oggi continuiamo ad ammirare le sue opere.
Questa precisazione serve soprattutto per comprendere il contesto e la matrice autobiografica del nuovo film di Woody Allen, Rifkin’s Festival, il 49esimo lungometraggio del cineasta statunitense. Il commediografo e drammaturgo gira un film classico-moderno che strizza l’occhio al grande cinema d’autore europeo (Fellini, Bergman, Godard, Truffaut, Pasolini…).
Come aveva fatto in Un giorno di pioggia a New York, Allen rimette al centro della pellicola le inquietudini e il groviglio esistenziale di uomo, questa volta non più giovane che si sente spaesato in una società effimera.
I protagonisti sono una coppia americana che si reca in Spagna per il Festival internazionale del Cinema di San Sebastiàn. Lui si chiama Mort Rifkin (Wallace Shawn) ed è un ex insegnante di Cinema che sta cercando di scrivere il romanzo della vita; lei è Sue (Gina Gershon) ed è un’addetta stampa che lavora per il regista francese Philippe (Louise Garrel). E, come talvolta accade nei film di Allen, è l’uscita dagli spazi conosciuti a scombussolare le esistenze sottotono e abitudinarie della coppia che incontrerà nuovi amori.
Rifkin’s Festival è un film che, mediante intrecci amorosi, sapientemente miscelati, lancia una timida accusa al Cinema hollywoodiano da cui il regista e sceneggiatore sembra prendere sempre più le distanze. Hollywood – che non è più la fabbrica dei sogni – è diventata una macchina, secondo Allen, per fare soldi che antepone il successo al botteghino all’autentico valore artistico di una pellicola.
Nel film non mancano, poi, le considerazioni sulla morte e sulla caducità dell’esistenza, né quella solita ironia che rende i film alleniani unici sia nello stile che nella forma. I personaggi sono illuminati da una luce solare che filtra dalle finestre, quando le loro anime sono attraversate da emozioni contrastanti. I dialoghi, così come i monologhi e le riflessioni personali del protagonista maschile, che è la voce narrante, sono illuminanti perché molto suggeriscono anche sui risvolti autobiografici del regista. Allen alterna in questo film sequenze a colori con scene in bianco e nero, passando dal reale all’onirico, con eleganza e una certa audacia.
Rifkin’s Festival – che non ha l’intensità melodrammatica dei più noti lungometraggi di Woody Allen e sicuramente sarà meno ricordato vista l’accoglienza in sordina, anche a causa della pandemia – è una commedia gradevole che riflette sulla vita, sull’amore e sulle paure che affliggono un uomo non più giovane che però non esita a porsi delle domande e a chiedere delle risposte. Maria Ianniciello