Non c’è niente da fare: San Siro è San Siro. Questo, almeno, per il Boss, che ancora una volta ha ammesso che Milano è per lui «un posto davvero speciale. Ho suonato un po’ ovunque – ha affermato – ma Milano rimane sempre nel mio cuore». Il forte legame tra Bruce Springsteen e la città lombarda ormai è cosa nota: cinque i grandi concerti che dal 1985 si sono tenuti proprio nello stadio di San Siro. Tutti eventi memorabili e l’ultimo ieri sera, lunedì 3 giugno, quando a partire dalle 20.15 circa il rocker americano è salito sul palco. Ad accoglierlo la coreografia fatta di cartelli bianchi, rossi e verdi: dagli anelli di San Siro il suo pubblico lo saluta, infatti, con la scritta “Our love is real”. Una dichiarazione alla quale Springsteen ha risposto con tre ore e venti di musica, canti, balli scatenati, senza smettere neppure per un attimo di dialogare con i suoi fan. Richieste di canzoni da parte del pubblico, ragazze sul palco a ballare “Dancing in the dark”, una bambina che canta “Waiting on a sunny day” e, come sempre, un’energia come se ne vede in poche occasioni, con l’intero stadio che ha ballato e cantato sulle note di pezzi storici come “Born to run”, “Born in the USA”, “No surrender” o “Badlands”.
Certo un concerto non troppo d’atmosfera: tolti brani come “The River”, “Atlantic city”, la sorpresa di “This land is your land” e l’acustica “Thunder road” del finale, per più di tre ore il Boss ha dato il meglio di sé in pezzi di puro rock, tanto che tra le ben 34 canzoni suonate ha trovato spazio l’intero album “Born in the USA”, forse non il migliore in assoluto di Springsteen ma sicuramente il più adatto a scatenare lo stadio milanese.
Ma ripercorriamo dall’inizio il concerto di ieri sera. In cima alla scaletta di brani c’è “Land of hope and dream”, accolta con grande entusiasmo dal pubblico e seguita da una serie di canzoni in grado di creare sin da subito quell’atmosfera da festa che caratterizza tutti i concerti di Milano, da “Out in the street” a “Death to my hometown”, passando per i ritmi irlandesi di “American Land”. Questo fino ad “Atlantic city”, emozionante soprattutto nel crescendo finale, e alla sempre attesa “The River”, che per qualche minuto sembrano cambiare l’atmosfera dello show, rendendola più raccolta, quasi mistica. Il pubblico chiude “The River” con un grande coro, che prosegue anche dopo la fine della canzone, tanto che Bruce è “costretto” a riprendere ancora per qualche istante con quella memorabile melodia. In seguito tutto cambia di nuovo: «Ricordo il tour “Born in the USA” del 1985, quando per la prima volta suonai in questo stadio – dice Springsteen, nel suo quasi perfetto italiano – Questa sera, in onore di quel concerto, suoneremo tutte le canzoni proprio di “Born in the USA”». Un annuncio che viene accolto con un’ovazione dal pubblico, pronto a scatenarsi sulle note di brani come, ovviamente, “Born in the USA”, “Cover Me”, “No Surrender”, “I’m Goin’ Down” o “Glory Days”. E poi le melodie più soft di “Downbound train” e “I’m on fire”. Insomma, un album eseguito interamente e all’interno del quale ha trovato spazio anche l’immancabile “Dancing in the dark”, che come sempre ha visto il Boss invitare a ballare sul palco alcune ragazze delle prime file.
Un concerto normale potrebbe dirsi finito, ma Springsteen è incontenibile e dopo ben 22 pezzi già suonati ecco che ne sforna ancora una dozzina, spaziando dalle recenti “Shackled and Drawn” e “We Are Alive” alle storiche “Badlands” e “Born to run”, senza dimenticare “Tenth Avenue Freeze-Out” e “The Rising”. Poi, sulla chiusura, la grinta del rocker americano sembra inesauribile: con “Twist and Shout” e “Shout” balla, ancheggia, corre e fa scatenare anche sul finale un pubblico che proprio non vuole andare a casa. Sicuramente l’erede di Elvis, verrebbe da dire: un sano e formidabile rock & roll che, come da tradizione, sembra davvero condurre verso la fine della serata. Ma il Boss ha ancora un colpo in canna, e lo spara con grande maestria: finiti i balli scatenati, tra le urla e gli applausi del pubblico, ecco che come già accaduto durante il concerto a Napoli dello scorso 23 maggio Springsteen congeda i suoi validi compagni di show, gli immancabili musicisti della E Street Band. Lui, solo sul palco, impugna chitarra acustica, afferra l’armonica e dice: «ancora una». Il pubblico attende in silenzio, spera in quel riconoscibile suono di armonica, in quegli accordi inconfondibili, attende. Poi, finalmente, Bruce attacca. Per il gran finale un regalo che San Siro attende da tempo: è “Thunder road”. Tutto tace, in un silenzio quasi religioso; qualcuno si emoziona; infine il coro dello stadio. Non poteva esserci modo migliore per salutare la “sua” Milano.
Valentina Sala