Una giornata dedicata all’impatto dei corpi sugli schermi quella della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Corpi che si uniscono, corpi che che si odiano, corpi che si scoprono, corpi che si proteggono. Se in “Still life” di Uberto Pasolini, in concorso per la sezione Orizzonti, il protagonista John May (Marsan) dedica la propria vita al corpo di persone defunte ma sprovviste di sepoltura e di parenti che se ne interessino, dando, così, un approccio etico all’interpretazione, in “Ana Arabia” di Amos Gitai, in competizione per Venezia 70, sono i frammenti di memorie di corpi a regnare sovrani. Il film, ispirato a storie vere, auspica il ripristino di un dialogo difficile tra specie umane in via d’estinzione in una zona di confine tutta Mediorientale. Mentre in “Via Castellana Bandiera” della Dante il confronto tra culture genera un abisso inespugnabile qui confluisce, invece, in una coesistenza pacifica.
Ancora corpi in primo piano in “Moebius”, il film, fuori concorso, del maestro Kim Ki-duk che, scontratosi con la rigida censura coreana, trova invece un forte interesse, sia emotivo che sociale, nella stampa italiana. Il regista parte dai concetti sul sesso esistenti in Corea e li sviluppa portandoli alle conseguenze più estreme senza mai fare riferimento alle parole bensì all’uso e all’evoluzione del corpo in una tragica vicenda familiare.
Grande successo per il ribelle Capitan Harlock e il suo fidato equipaggio che, nel reboot del manga originale di Leiji Matsumoto, girato da Shinji Aramaki e intitolato “Harlock: Space Pirate”, trova l’incarnazione dei sogni di un uomo in lotta contro la deufradazione dei valori sui quali si fonda l’intera umanità. Del tutto astratto da ogni tipologia di etichettatura è “Under the skin”, il film di Jonathan Glazer che ha per protagonista una rinnovata Scarlett Johansson la quale, nei panni di un’aliena dalle fattezze umane, scopre il pianeta terra senza preconcetti. Una pellicola sui generis, a tratti destabilizzante che, a fatica, riesce a trovare una collocazione stabile.
Ancora un approccio corporeo, anzi carnale, allo schermo per “Ruin” l’opera di Michael Cody e Amiel Courtin-Wilson, sezione Orizzonti, girata interamente in Cambogia: il vulnerabile sentimento d’amore dei due protagonisti trova, infatti, un rifugio nei loro tessuti organici che faticano ad adattarsi ai pericoli di un mondo ormai amorfo.
Raffaella Sbrescia