Un po’ di anni fa, con alcuni colleghi di una redazione economica napoletana, si faceva un giochetto simpatico. Le giornate in redazione sono per definizione lunghe, lunghissime e così, nei momenti di stanca, per tenerci svegli e complicarci un po’ la vita, decidevamo di scrivere facendo a meno di qualche parola chiave, una di quelle molto utilizzate da noi giornalisti che, quando ci mettiamo, non brilliamo certo per fantasia e originalità. Era una faticaccia arrivare al traguardo senza poter utilizzare termini come business, azienda o fatturato. Una faticaccia che diventava impresa impossibile quando qualcuno tirava fuori dal cilindro la parola magica e irrinunciabile per ogni redazione economica che si rispetti: sviluppo. Sì, alla fine, arrivammo alla conclusione che era la più abusata perché trasversale a tutti i settori e a tutti i momenti storici, più o meno negativi. Di sviluppo si parla da sempre e in tutte le salse, con un’accezione esclusivamente positiva, collegata a filo doppio ai concetti di crescita ed espansione. E’ passato il messaggio, e i motivi economico-finanziari sono facilmente intuibili, che ci può essere un futuro solo se si produce di più, se si consuma l’impossibile e se ci si continua a circondare di oggetti più o meno inutili. Non basta un telefonino: ci vuole l’I-Phone; non è sufficiente un’auto: serve il Suv a sette posti, anche se poi, nel 90 per cento dei casi, ti ci ritrovi da solo a girare come un matto in cerca di un parcheggio. Lo so, chi prova a fare certi ragionamenti rischia grosso: nella migliore delle ipotesi viene tacciato di essere un romantico visionario. Se poi gli gira male potrebbe anche ritrovarsi l’ambulanza sotto casa con un paio di infermieri concilianti e sorridenti che gli parlano di un bel posto immerso nel verde dove il sole non tramonta mai. Neanche l’infinita stagione della crisi, apertasi nel 2008, ha cambiato le regole del gioco.
Poteva essere l’occasione per riposizionarsi, scalare di marcia, trovare strade alternative. Ma così non è stato. Certo, si è tornato a parlare di agricoltura, qualcuno ha riaperto la bottega di famiglia, altri hanno iniziato a discettare di ambiente e sviluppo (ci risiamo) eco-sostenibile. Ma, in più di un caso, è stato un esercizio forzato dagli eventi, una scelta di ripiego, poco convinta. Del resto, chi come Serge Latouche teorizza da un po’ di anni il concetto di “decrescita felice” viene guardato con sospetto. Alcune sue affermazioni fanno paura, perché sono tremendamente vere. Qualche esempio? “La globalizzazione è mercificazione”, o peggio: “Il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio”. Per costruire una società solidale l’economista (pentito) e filosofo (convinto) si è inventato anche il concetto di abbondanza frugale. In altre parole, abbiamo già tutto, perché strafare? La sua filosofia nasce e matura anni fa in Laos, dove non esiste un’economia capitalistica, all’insegna della crescita, eppure la gente vive serena. Affascinante. Anche se è molto più comodo e semplice fare spallucce e dire che siamo andati troppo avanti per tornare indietro. E invece per frenare e provare a cambiare rotta c’è ancora tempo e modo. Come si può puntare a uno sviluppo infinito se viviamo in un pianeta finito? Che senso ha continuare a produrre quando non c’è, non ci potrà mai essere, chi compra per sempre? Un solo dato: il 40 per cento del cibo prodotto a livello mondiale non arriva sulle nostre tavole non perché non sia buono, ma per mancanza di tempo sufficiente, scade prima che qualcuno lo acquisti. Bella roba. Soprattutto se pensiamo a quante volte ci battiamo il petto di fronte ai numeri impressionanti dei bambini che, ogni giorno, muoiono di fame.
E allora? Come si rallenta? E’ ancora possibile conciliare la sfrenata corsa verso lo sviluppo con la nostra qualità della vita? La storia è fin troppo chiara e non va dimenticata: tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni ‘70 abbiamo vissuto trent’anni di progresso. Un periodo caratterizzato da crescita economica e trasformazioni sociali di un’intensità senza precedenti. Poi è iniziata la fase successiva, quella dell’accumulazione continua, anche senza crescita. Adesso siamo schiavi del marketing e della pubblicità che hanno l’obiettivo di creare bisogni che non abbiamo. Non capiamo che potremmo vivere serenamente con tutto quello che abbiamo. E invece continuiamo ad accumulare, rincorrendo le nuove versioni di un bisogno che non c’è, ma che percepiamo come vitale, essenziale. Abbandonare la “crescita senza crescita” per una decrescita con crescita significa ragionare con una nuova logica, vuole dire credere in una nuova fede: “decolonizzare il nostro immaginario”, per usare il gergo latouchiano. Per esporre il suo progetto teorico Latouche racchiude il significato della decrescita in otto obiettivi che danno vita ad un “circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile”, come scrive il filosofo francese nella sua “Scommessa della decrescita”. Gli otto obiettivi sono: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Quando Latouche parla di “colonizzazione dell’anima” parla, inevitabilmente, di una cattiva educazione, civile e scolastica. Un processo che ha annichilito il nostro senso critico a favore di un’omologazione stereotipata che sfrutta i bisogni esistenti per crearne di nuovi, fornendo anche finte soluzioni. Gli individui non sono più considerati persone ma diventano consumatori, potenziali clienti, investitori da convincere e da manipolare. Fermiamoci un attimo, leggiamo qualche pagina di Latouche e riflettiamoci su. Svuotiamo menti e case del superfluo: vedrete che resterà comunque roba sufficiente per un paio di generazioni. Non è semplice, non è tutto sempre condivisibile, ma si può provare. Ma stavolta non ci saranno deleghe in bianco e non sarà colpa del governo. Iniziamo da noi stessi, nel nostro piccolo mondo. Un passo alla volta, già da oggi.