Donne, la parità è nelle parole. Con dati alla mano ti spieghiamo perché!

La prima stagione del podcast InFormAzione si conclude con la ventesima puntata, nella quale parliamo del linguaggio di genere in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna. Buon ascolto.

Linguaggio di genere: ecco perché è importante

In questi giorni hanno fatto molto discutere le parole della musicista Beatrice Venezi che sul palco dell’Ariston a una battuta di Amadeus – che le chiedeva se doveva presentarla come direttrice d’orchestra – ha risposto: “No, meglio direttore”. Ovviamente, come spesso accade in questi casi, il dibattito si è scisso tra chi dà ragione a Venezi e chi invece le dà torto. Ma in questa sede andiamo oltre quanto accaduto a Sanremo, cercando di capire (anche attraverso i dati) quanto le parole incidano sul gender gap.

Premetto che direttrice è un sostantivo femminile che, declinato al maschile, diventa direttore, così come dottoressa e dottore, come maestra e maestro o infermiera e infermiere.

Eppure ci sono termini che risultano esseri difficili da declinare al femminile per un fatto meramente culturale legato anche all’idea che certe professioni siano di competenza maschile, soprattutto se nell’immaginario collettivo sono considerate più autorevoli.

Nel caso specifico, siccome le direttrici d’orchestra non sono state molte e il ruolo richiede un’attitudine alla guida e al comando – che le donne storicamente non hanno potuto mai sviluppare appieno per impedimenti esterni -, si opta per direttore ma non perché sia linguisticamente più consono. Direttrice richiama poi alla mente scuole e cattedre, quindi ambienti prevalentemente femminili e dunque per evitare di essere collocati in settori non propri si preferisce direttore.   

Non regge nemmeno la giustifica data da Venezi, secondo la quale si dice direttore d’orchestra e non direttrice, perché nessun uomo – che fa un lavoro svolto storicamente dalle donne – come l’infermiera o la segretaria o la dattilografa o la centralinista – si farebbe mai chiamare con sostantivo declinato al femminile.  

La sociolinguista: “Chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un capriccio”

Nel libro ‘Femminili Singolari’ (lo trovi qui) la sociolinguista Vera Gheno scrive: “Succede che ciò che non viene nominato tende ad essere meno visibile agli occhi delle persone”.

Secondo Gheno, in questo senso “chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio ma il riconoscimento della loro esistenza”, e – sottolinea la sociolinguista – “pazienza se ad alcuni suonano male; ci si può abituare”. 

linguaggio di genere

Per Michela Murgia, il linguaggio di genere è necessario

Anche la scrittrice Michela Murgia nel nuovo libro, ‘Stai zitta’ (lo trovi qui), ritiene che “se si è donna in Italia si muore anche di linguaggio” ed è, continua la scrittrice, “una morte civile ma non per questo fa meno male”.

Quindi, chiarisce Murgia, “un modo pratico di farvi sparire dal ruolo pubblico è quello di rifiutarsi di declinarlo secondo il vostro genere, sottintendo che siete l’eccezione femminile di una norma maschile”.

La scrittrice afferma poi che “il linguaggio è un’infrastruttura culturale che riproduce rapporti di potere”, di conseguenza “l’imposizione del cosiddetto maschile universale è un modo per dire che state occupando abusivamente il posto di un uomo ma che questa anomalia durerà talmente poco che non vale nemmeno la pena di trovare una parola che la definisca”.

Un po’ come accadde nel secondo dopoguerra, quando le donne – dopo che gli uomini erano tornati dal fronte – furono relegate tra le pareti domestiche a svolgere le funzioni per le quali, secondo la logica patriarcale, erano state create.

Ne parla anche Betty Friedan nel libro ‘La mistica della femminilità’ (lo trovi qui in inglese), quando si sofferma sul problema senza nome, ovvero su quel senso di inquietudine che affliggeva le casalinghe degli anni Sessanta e che non veniva compreso dalle persone vicine (marito, genitori, fratelli…).

Ho affrontato questo discorso con Maura Gancitano nel quinto episodio di questo podcast

Linguaggio di genere. I numeri non mentono

D’altra parte i numeri non mentono; il gender gap non è stato infatti ancora colmato in Italia dove le donne hanno difficoltà ad accedere ai posti di comando in primis per motivi storici e strutturali. Il Global Gender Gap Index – che è stato sviluppato dal World Economic Forum nel 2006 – misura l’ampiezza del divario tra uomini e donne nel mondo su aspetti come la sanità, il diritto all’istruzione, la partecipazione e le opportunità economiche e l’emancipazione politica.

Nel 2020 l’Italia si colloca al 76esimo posto della classifica su 153 Paesi. Ai primi dieci posti della graduatoria troviamo l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia, la Svezia, il Nicaragua, la Nuova Zelanda, l’Irlanda, la Spagna, il Rwanda, la Germania, la Lettonia. Seguono Namibia, Costa Rica, Danimarca. La Francia è al quindicesimo posto. Agli ultimi posti della classifica si posizionano Siria, Pakistan, Iraq e Yemen. E il nostro Paese a livello europeo si colloca agli ultimi scalini della graduatoria.

Le linee guida dei principali organi internazionali

Il divario di genere viene quindi mantenuto in piede anche dalle parole, che non sono una sottigliezza, almeno non per le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Organizzazione internazionale del lavoro, il Parlamento europeo e la Commissione europea che dal 2008 in poi hanno creato delle linee guida sulla neutralità di genere nel linguaggio per una terminologia inclusiva, non sessista e rispettosa del genere.

Nel caso del sostantivo direttore le linee guida suggeriscono direttrice per il femminile. Qui le principali linee guida.

Perché è così faticoso cambiare il linguaggio?

Ma perché si fa così fatica a cambiare terminologia? La verità, sostiene la giornalista Caroline Criado Perez nel libro ‘Invisibili’ (lo trovi qui), è che leggiamo le cose al maschile, a meno che non siano marcate in modo esplicito come femminili perché è una propensione che “ha radici profonde nella nostra psiche, al punto che persino le parole indiscutibilmente neutre vengono lette come maschili”.

La nostra mente pensa al maschile, è provato che se per esempio si chiede ai bambini di entrambi i sessi di disegnare uno scienziato si disegna quasi sempre un maschio. Il maschile è nel nostro Dna.

Pensate che fino al secolo scorso all’interno della New York Philharmonic Orchestra le donne sono state sempre un’eccezione ma negli anni Settanta il numero delle donne è cominciato a crescere sempre di più perché le audizioni sono diventate cieche, quindi non c’erano pregiudizi nella valutazione.

E allora cosa fare? Innanzitutto è essenziale non negare che ci sia un divario di genere e poi prendere consapevolezza dell’importanza delle parole usandole correttamente…

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