Il Caffè Florian di Venzia è da sempre luogo d’incontro d’artisti perché proprio qui, nella Sala Senato, alla fine dell’800 Riccardo Selvatico ed i suoi amici intellettuali ebbero l’idea di creare la Prima Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Per sottolineare l’importanza di questo legame il Florian, ormai da più di venticinque anni, crea un prestigioso spazio espositivo d’arte contemporanea. Più volte l’anno artisti visivi, designers, fotografi accettano la sfida di metter in relazione i propri lavori con gli stucchi, gli ori, gli affreschi, i ritratti, gli specchi di questo locale storico aperto ininterrottamente ormai da quasi trecento anni. Domani, 23 giugno 2012, verrà inaugurata l’esposizione di Stefano Curto, che rimarrà aperta al pubblico fino al 22 luglio.
L’impegno non è facile. Stefano Curto, artista viaggiatore, è una specie d’alchimista: ha trasformato centinaia di migliaia di gemme in opere d’arte fatte di luce, non una luce che abbaglia ma che diventa portatrice di messaggi profondi ed universali come nel “tappeto volante” che l’artista ha intitolato “The Marvellous flight of coexistence”. Vivere in pace tra popoli, fare in modo che la religione, qualsiasi essa sia, diventi strumento di comprensione e non di divisione sono pillole di saggezza universali. Messaggi importanti che si sposano bene con la storia di Venezia e del caffè Florian, da sempre porto d’arrivo d’uomini e donne che si considerano, come disse Einstein, prima di tutto cittadini del mondo. I suoi lavori poi sono anche un messaggio importante nel difficile momento economico che stiamo vivendo: per superarlo è necessario mettere in campo costanza, pazienza, preparazione tecnica, abilità, fantasia, creatività. Tutte qualità che Stefano Curto traduce nei suoi splendidi lavori!
Andrea Formilli Fendi, Presidente Caffè Florian, spiega l’importanza dell’evento: «A Venezia, città unica e irripetibile, la luce muta col cambiare della marea. L’acqua del mare per sei ore entra in laguna e poi nelle sei ore successive, quella che i veneziani chiamano “dosana”, l’acqua torna in Adriatico attraverso le bocche di porto. Questo fenomeno naturale ha la funzione di ripulire costantemente barene, canali, ghebi della Laguna. Ma oltre a questo è l’acqua della marea, sempre in movimento, a rendere la luce di questa città mutevolissima ed unica. Quando ho visto per la prima volta i lavori di Stefano Curto ho avuto immediatamente questo flash: le sue opere preziose mutano, come i palazzi sul Canal Grande o i mosaici della Basilica di San Marco, col variare della luminosità, cambiano quasi personalità se scegliamo una posizione diversa rispetto alla luce che le illumina. Migliaia di gemme incastonate con pazienza e abilità certosina diventano così lavori “unici”, difficilmente imitabili, perché Stefano Curto riesce a sposare una tecnica incredibilmente raffinata ad una sensibilità artistica che gli deriva dai suoi lunghi viaggi in Oriente dove probabilmente si è lasciato guidare da quel “conosci te stesso” scolpito nell’oracolo di Delfi e che lui ha moltiplicato per mille, diecimila, centomila, tanti sono i cristalli che, incastonati compongono le sue opere. Queste pietre preziose, che rimandano ad un universo stellato, diventano così, attraverso le sapienti mani di Stefano Curto, “Marvellous flight of coexistence” l’opera esposta oggi al Caffè Florian. Un tappeto volante e brillante che non è solo strumento per far viaggiare la nostra fantasia come quello di Sherazade ma è anche messaggio di pace, un invito alla possibile e pacifica convivenza tra popoli e religioni diverse. Infatti questo tappeto non è solo “bello”, come può essere il lavoro di un artista, ma contiene in se, cambiando prospettiva di visione, i simboli delle diverse religioni spesso in lotta fra loro e qui invece unite 120.000 volte assieme, tanti quanti sono i cristalli incastonati. E sopra, sul fondo della Sala Stagioni, questo alchimista del 2000, ha posto un’enorme maschera del teatro Kabuki che sembra guardare il tappeto o meglio pare guardare noi, quasi perplessa, di trovarsi lì a “riflettere” sul senso spesso teatrale del nostro agire».